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Il capo della locale della ‘ndrangheta denunciato per estorsione:
«Fai quello che ti dicono». C’è l’aggravante del metodo mafioso
«Voglio riavere i 7mila euro che ho versato a titolo riparativo». Quando l’ha visto arrivare nella sede dell’associazione con quell’atteggiamento un po’ arrogante e quasi minaccioso non si è scomposto. «Vattene via», gli ha risposto. Non si è fatto intimorire, è abituato a gente un po’ sopra le righe e non è certo suo costume cedere alle prime frasi velatamente minacciose. Ma le richieste nel tempo sono diventate sempre più pressanti e se all’inizio erano solo saltuarie, dal mese di marzo sarebbero diventate più insistenti, poi sarebbero iniziate le minacce, i pedinamenti e infine è spuntata la pistola. È stato allora che l’uomo, spaventato, ha allertato i carabinieri. Venerdì i militari del nucleo investigativo del comando provinciale e i colleghi della compagnia di Borgo Valsugana sono entrati in azione riuscendo a interrompere la spirale di minacce che stava ormai esasperando il responsabile della onlus e la sua famiglia.
L’intervento e l’arresto
I carabinieri sono intervenuti proprio nel momento in cui l’aggressore stava colpendo la vittima. Lo hanno bloccato e arrestato per tentata estorsione. Si tratta di Saverio Manuardi, volto noto alle forze dell’ordine, originario della Calabria, agli albori dell’inchiesta era stato coinvolto nell’indagine del Ros sulla locale trentina legata alla ‘ndrangheta infiltrata nel mondo del porfido, poi la sua posizione era stata stralciata. Arrivato in Trentino da Cardeto, come i fratelli Battaglia, condannati per mafia nell’ambito dell’indagine Perfido, Manuardi aveva lavorato nella Porfidi 99 srl, la società di cui era amministratore unico Giuseppe Nania, il «braccio armato» della ‘ndrangheta.
La donazione
Manuardi circa un anno fa era stato fermato per spaccio di sostanze stupefacenti e aveva chiuso i conti con la giustizia con la messa alla prova, istituto che prevede la possibilità anche di effettuare una donazione a una onlus pari all’importo dei proventi ricavati dall’attività di spaccio. L’uomo aveva scelto un’associazione di volontariato in Valsugana e aveva versato i 7mila euro. Ma poco tempo dopo ha iniziato a pretendere la restituzione del denaro, convinto del fatto che non avrebbe mai dovuto svolgere il servizio alternativo e neppure effettuare la donazione.
Le intimidazioni
Per essere più convincente, dopo i primi tentativi falliti, ha chiamato in suo aiuto due albanesi, noti negli ambienti dello spaccio, che si sono presentati nella sede dell’associazione a nome dell’amico. Con fare minaccioso avrebbero messo subito le cose in chiaro: «Non si parla con i carabinieri». E ancora: «Ci sono anche gli interessi, non è finita qui, restituisci i soldi». Inseguito sul posto del lavoro e anche a casa, poi poco tempo dopo i tre avrebbero costretto il volontario a fermarsi lungo la strada e gli avrebbero mostrato una pistola.
L’estorsione con metodo mafioso
Infine avrebbero coinvolto anche Innocenzo Macheda, presunto capo della ‘ndrina di Lona Lases che, temendo di essere intercettato, si sarebbe piazzato di fronte alla vittima con un cartello e una frase chiaramente intimidatoria. Il messaggio era chiaro: «Fai quello che ti dicono». A quel punto l’uomo, esasperato, ha chiamato i carabinieri. I due albanesi sono accusati di tentata estorsione in concorso aggravata dal metodo mafioso, stessa accusa mossa a Macheda che è già a processo per il filone di Perfido. L’udienza di ottobre era stata rinviata: la difesa aveva infatti chiesto di valutare le condizioni di salute dell’imputato, ma per il perito è in grado di seguire il processo. Ora dovrà fare i conti anche questa seconda accusa.
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