Pfas, una dieta “speciale” per chi vive nella zona rossa del Veneto

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Se vivi nella “zona rossa”, quella più contaminata da Pfas, in Veneto, devi stare attento anche alle uova delle galline dietro casa e ai prodotti animali e vegetali a chilometro zero. Un recente studio realizzato dai dottori Armando Olivieri e Mario Saugo, in collaborazione con il professor Hyeong-Moo Shin della Baylor University di Waco in Texas, ha dimostrato che, per la popolazione precedentemente interessata dall’inquinamento, il consumo di alimenti locali può essere un’ulteriore fonte di esposizione alle sostanze per- e polifluoroalchiliche. Dunque non va ignorato: con una dieta di solo cibo autoprodotto nella zona contaminata, infatti, il tempo necessario per lo smaltimento di queste molecole dall’organismo si allunga tra i tre e i cinque anni. «Il problema non si pone per i non residenti, perché non hanno accumulato nel loro organismo livelli elevati di Pfas e non consumano in maniera continuativa ed esclusiva i prodotti della zona contaminata», sottolineano Olivieri e Saugo.

Il contesto

L’inquinamento deriva dalla fabbrica ex Miteni di Trissino, chiusa definitivamente nel 2018 dopo diversi passaggi di proprietà. Per anni, inconsapevolmente, 350mila persone tra le province di Vicenza, Verona e Padova sono state esposte ad altissimi livelli di Pfas attraverso l’acqua e il cibo locale. Dopo la scoperta del problema, dall’estate del 2013, con la filtrazione su carboni attivi dell’acqua erogata dagli acquedotti, la presenza di inquinanti eterni nel sangue ha cominciato a ridursi progressivamente. Nelle aree più contaminate i residenti sono circa 127 mila e sono stati invitati a partecipare a un piano di sorveglianza sanitaria, che comprendeva esami di laboratorio e visite mediche. «Parliamo di inquinanti chimici permanenti», spiegano Olivieri e Saugo. «Una volta ingeriti, ci vogliono fino a quindici anni perché il livello nel corpo umano torni a quello della popolazione non esposta. Ovviamente, continuando ad assumere Pfas, anche a piccole dosi come quelle contenute nel cibo locale, il processo di eliminazione dal corpo avviene più lentamente. Ecco perché, per la popolazione della zona rossa, la scelta della dieta non va sottovalutata».

Questione di salute pubblica

L’Ordine dei medici di Vicenza ha attivato nel 2017 una commissione Ambiente e Salute, per rispondere alle richieste di formazione e approfondimento sulla contaminazione da Pfas sul territorio. I medici di base, sin dall’inizio, si sono trovati a dover accompagnare i pazienti nel comprendere e affrontare questo grave problema. «Da subito, abbiamo affrontato la questione nell’ottica della sanità pubblica», spiegano Olivieri e Saugo, che fanno parte di questa commissione. «Dopo l’introduzione dei filtri a carbonio nell’acquedotto, la principale fonte di esposizione è stata interrotta. Ma in molti contesti rurali, ancora oggi, si continuano a utilizzare pozzi privati, in genere non controllati, specialmente per irrigare campi e orti e per abbeverare gli animali. Conoscendo queste situazioni, abbiamo approfondito le possibili conseguenze per la popolazione già esposta, in particolare gli agricoltori. Queste persone vanno accompagnate, è necessario, come medici, dare loro risposte e consigli».

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I consigli del medico

Gli autori dello studio sono partiti da un rapporto dell’Istituto superiore di sanità, che stimava l’apporto ulteriore di sostanze per- e polifluoroalchiliche da alimenti locali vegetali e, specialmente, animali (nella filiera i Pfas si accumulano). Il rapporto ha considerato la dieta nel suo complesso (non i singoli alimenti) e ha elaborato due scenari di esposizione per la popolazione che vive sul territorio e usa l’acqua di acquedotto, l’uno per chi consuma cibo a chilometro zero, l’altro per chi non lo fa, concludendo: «Gli allevatori, in particolare, e con essi tutti i soggetti che presentano un significativo consumo di prodotti locali e/o autoprodotti (specialmente alimenti di origine animale), sono verosimilmente un sottogruppo di popolazione con esposizioni elevate». Questa valutazione è utile per fornire supporto alla popolazione più esposta. «Chi vive nella zona rossa e ha livelli elevati di Pfas nel sangue deve differenziare la dieta», affermano Olivieri e Saugo. «È un argomento complesso, ma certamente si può fare molto per migliorare la situazione. Tra le persone più sensibili e disposte a cambiare abitudini e sperimentare nuove soluzioni ci sono le mamme, alcune delle quali sono proprio coltivatrici».

Oltre ai consigli sull’alimentazione, l’Ordine dei medici di Vicenza ha tradotto le raccomandazioni elaborate dal progetto statunitense Pfas-Reach, destinate a coloro che vivono in comunità attualmente o in passato esposte al consumo di acqua potabile contaminata o ad altre fonti di Pfas e che presentano un carico corporeo rilevante di questi inquinanti.

Al processo di Vicenza

Intanto, il 28 novembre scorso, alla corte d’assise di Vicenza, durante il processo sui Pfas, sono stati sentiti due professori universitari, Paolo Boffetta e Claudio Colosio, consulenti della difesa dei vertici dell’azienda chimica di Trissino che si sono succeduti nel tempo. I due hanno mostrato alcune diapositive. «L’ultima conteneva un’affermazione veramente spiazzante», afferma Saugo, «una persona che beve ogni giorno due litri di acqua con 1.173 nanogrammi al litro di Pfoa sarebbe “nei limiti protettivi”. Ma come? E tutte le preoccupazioni delle famiglie e degli amministratori locali? I convegni e le delibere adottate dalla Regione Veneto? Le serate, le raccolte fondi e le manifestazioni pubbliche? Tutti i soldi pubblici spesi per la filtrazione con i carboni attivi? Quelli per i nuovi acquedotti fatti e quelli per gli acquedotti da fare? Le salatissime bollette dell’acqua pagate dagli allevatori della zona? Le disposizioni normative europee e nazionali sempre più restrittive? Tutto sbagliato?».

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Saugo spiega che, per capire l’equivoco, bisogna tener conto del peso corporeo. «Una stessa piccola quantità di inquinante potrebbe essere considerata accettabile per un uomo che pesa cento chili, ma certamente non per un bambino di dieci chili. Prendendo, per convenzione, un adulto di 70 kg, con una semplice divisione abbiamo il risultato che ci interessa: 33,5 nanogrammi di Pfoa per kg di peso corporeo per ogni giorno. Possiamo allora facilmente constatare che il consumo di acqua fortemente inquinata che ci viene proposto è 53 volte più alto del valore adottato dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, su cui si basano la normativa europea e italiana sulla sicurezza dell’acqua potabile. Errori così grossolani vanno tenuti fuori dall’aula del tribunale e ben al di fuori di un dibattito pubblico aperto, informato e rispettoso delle leggi vigenti».

La foto in apertura è di Mickaela Scarpedis-Casper su Unsplash

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