L’attuale Governo ha scelto una linea corretta in materia di pensioni: fare meno ma meglio. Poi non sempre – nonostante la buona volontà – riesce a fare meglio, ma è stato in grado di ripristinare dall’inizio del 2025 una delle norme più importanti della riforma Fornero (l’aggancio automatico dell’incremento dell’attesa da vita all’incremento dei requisiti per il pensionamento che avrà riflessi di risanamento anche sulla piaga del pensionamento anticipato), un sistema di rivalutazione dei trattamenti secondo i criteri introdotti in una legge del 2000 e manipolati per esigenze di cassa da tutti i Governi, tranne che da quello Draghi, la salvaguardia di via d’uscita particolari in caso di lavori disagiati o di condizioni individuali e famigliari di difficoltà. Ma il tema delle pensioni è troppo ghiotto per la platea interessata per disarmare i saccheggi demagogici.
In primo luogo, sono in primo piano le polemiche sull’aumento di 1,8 euro mensili sui trattamenti minimi, senza che si chiarisca il percorso normativo che ha portato a quel risultato. Poi le critiche non si limitano solo a ciò che è stato fatto, ma anche a quanto manca secondo una visione distorta del sistema pensionistico in base alla quale dovrebbero essere stanziate ingenti risorse perché vi è una convinzione diffusa (ed errata) in merito al sinonimo pensionato uguale a povero. In qualsiasi talk show, quando le redazioni si sforzano a consegnare ai conduttori delle tabelle, una non manca mai: quella relativa a 4,8 milioni di pensioni inferiori a mille euro lordi mensili. Senza ulteriori precisazioni è facile lasciare intendere che 4,8 milioni di cittadini anziani siano costretti a vivere con mille euro lordi mensili. Basterebbe informarsi meglio e ci sono in mezzi per farlo (come spiegato in articolo di Micaela Camilleri di Itinerari previdenziali, un sito impegnato nella lotta ai tanti luoghi comuni).
Spiega Camilleri che “ai fini di una corretta informazione, è necessario distinguere tra importo medio della prestazione pensionistica e reddito pensionistico medio per pensionato perché entrambi sono valori fondamentali per valutare correttamente l’adeguatezza degli assegni. Le prestazioni del sistema pensionistico italiano vigenti al 31 dicembre 2023 sono 22.919.888, per un ammontare complessivo annuo pari a 347,032 miliardi di euro, che corrisponde a un importo medio per prestazione di 15.141,08 euro annui lordi (1.164,70 euro lordi al mese per 13 mensilità). Poiché i pensionati beneficiari di queste prestazioni sono 16.230.157, il reddito pensionistico medio pro capite è pari a 21.381,92 euro annui lordi (circa 17.381 euro annui netti), quindi 1.645 euro lordi mensili (circa 1.337 euro mensili netti), sempre per 13 mensilità. È proprio questo secondo dato, relativo al reddito pensionistico, da considerarsi il più corretto, anche se spesso viene diffuso impropriamente il primo, dividendo il valore totale della spesa previdenziale per il numero delle prestazioni e non per il numero dei pensionati”.
Inoltre, “scomponendo per classi di importo, le prestazioni fino a una volta il minimo (567,94 euro mensili) sono circa 7,503 milioni, ma i pensionati che poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico fino a una volta il minimo sono circa 2,208 milioni su 16,230 milioni di pensionati totali. Anche alla successiva classe di importo (da 567,95 euro a 1.135,88 euro lordi mensili) appartengono 6,8 milioni di prestazioni, ma ne beneficiano solo 3,77 milioni di pensionati. Il fenomeno dipende dal fatto che un soggetto può essere beneficiario di più prestazioni (ad esempio, una pensione di importo medio-alto e uno o più trattamenti più bassi come un’indennità di accompagnamento o una pensione di reversibilità) che si cumulano tra loro, facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni o pensioni”.
Dunque, sostenere “che circa un terzo del totale delle prestazioni pensionistiche è uguale o inferiore al minimo è sbagliato non solo dal punto di vista tecnico ma anche sotto il profilo comunicativo”.
Senza dimenticare che “nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici, bisognerebbe procedere per tipologia e analizzare separatamente le medie delle prestazioni assistenziali, delle rendite indennitarie, delle prestazioni dirette e di quelle ai superstiti, per evitare di mischiare prestazioni di natura non omogenea”. È dunque vero che il 36,8% dei pensionati ha redditi pensionistici inferiori a 1.135,88 euro lordi al mese, ma molti di questi redditi non sono strettamente riconducibili a pensioni, quanto piuttosto prevalentemente a trattamenti assistenziali“.
Secondo l’Ocse, poi, in Italia il reddito degli over 65 è superiore a quello della media degli attivi. Il che ha un significato preciso. Le generazioni che in un regime di finanziamento a ripartizione sono i contribuenti che pagano le pensioni in essere con una quota consistente del loro reddito, percepiscono una retribuzione in media inferiore ai trattamenti pensionistici che garantiscono alle generazioni già in quiescenza. Infatti, “l’aliquota media di contribuzione effettiva nei Paesi Ocse è pari al 18,2 per cento del livello salariale medio nel 2022, mentre quella italiana, che è la quota obbligatoria più alta, è del 33 per cento”. Da ciò derivano problemi qui e ora, non si tratta solo di un’ingiustizia spostata nel tempo. “I Paesi con tassi di contribuzione più elevati – scrive ancora l’Ocse – spesso lo hanno fatto per prestazioni pensionistiche superiori alla media (come nel caso di Francia e Italia)”.
Insomma, l’ingiustizia è adesso e riguarda il rapporto tra pensionati in essere e lavoratori attivi. A controprova c’è il calcolo davvero impressionante con cui l’Ocse mostra come in Italia il reddito degli over 65 sia superiore a quello della media degli attivi. Stortura odiosa e acclarata che è anche una mina per tutta l’economia e specificamente per i conti pubblici, su cui grava un 16,2 per cento di costo generale della previdenza. Ma ne va del benessere di tutti, delle prospettive di crescita e di lavoro. Perché l’Ocse indica come un livello più elevato di aliquote contributive “potrebbe danneggiare la competitività dell’intera economia e causare una riduzione dell’occupazione totale”.
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