Le nuove industrie su cui puntare per trainare il sistema Italia

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L’Istat ha rivisto al ribasso le stime di crescita del prodotto interno lordo italiano che si fermerà allo 0,5 per cento quest’anno e allo 0,8 per cento l’anno prossimo rispetto al +1,3 utilizzato dal governo nel Documento di economia e finanza. Eppure l’inflazione è scesa a livelli considerati sostenibili, le retribuzioni, come rileva anche il centro di studi economici Ref nel suo aggiornamento congiunturale pubblicato il 4 dicembre, sono in recupero, sia pur lieve; l’occupazione sale. 

Il fatto è che manca all’appello una componente decisiva: l’industria. Proprio quella che nel post Covid era stata il propellente della ripresa economica italiana. Ma oggi l’industria italiana presenta il conto della mancanza di una strategia. E le contraddizioni vengono a galla. Come nota ancora Ref, la crescita dell’occupazione, che statisticamente è arrivata a livelli record per l’Italia, continua evidentemente a destare delle perplessità se si considera che in questo stesso periodo, i due trimestri centrali del 2024, il Pil sarebbe aumentato soltanto dello 0,4 per cento. 

Gli aumenti della domanda di lavoro si associano quindi alla prosecuzione del calo della produttività. Tradotto in soldoni: il Pil è cresciuto, anche se poco, ma lo ha fatto con un numero maggiore di occupati e di ore lavorate. Il costo del lavoro per unità di prodotto è balzato all’insù. Sintesi: la componente industriale dell’economia italiana è mediamente vecchia. E infatti cosa sta facendo rallentare così la nostra economia, oltre le attese e le speranze del governo ma anche del resto del Paese? Tre settori, pochi ma strategici: l’auto, le costruzioni e il tessile moda. Le costruzioni, finito l’effetto dopante di bonus e superbonus stanno tornando allo stato letargico precedente al Covid.

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Il tessile moda declina assieme ai consumi delle famiglie, colpite dall’inflazione, dalle incertezze degli scenari internazionali e dell’economia, che creano timori per i posti di lavoro. E anche per la cultura della sostenibilità che assieme all’economia circolare e alla domanda di maggior durata dei prodotti di consumo sta penalizzando in modo particolare il fast fashion, il mercato di massa di brand e prodotti di fascia media, ossia lo zoccolo duro del made in Italy nel mondo. 

L’auto invece, il grande malato dell’economia mondiale, ma soprattutto europea e italiana in particolare, è alle prese con una crisi di dimensioni inaudite. Le errate valutazioni sulla crescita del mercato delle elettriche ha messo ko le grandi case dell’automotive europeo (americani, giapponesi e coreani lamentano cali ma inferiori). La sciagurata decisione Ue di mettere al bando i motori termici tra dieci anni ne ha bloccato lo sviluppo e ha messo nel cassetto ogni tipo di investimento che li riguardasse. 

Ci sono soluzioni a un tale quadro? Sì, certo: trovare le nuove industrie dei prossimi decenni. Farlo vuol dire ripartire dal basso e puntare sulle filiere delle eccellenze. Vuol dire ridisegnare la macchina pubblica (autorizzazioni, certificazioni, iter amministrative), il sistema fiscale (agevolazioni e tax credit) e politica economica (investimenti pubblici, fondi di sviluppo, finanziamenti diretti e indiretti, sistema del credito) indirizzandoli verso il consolidamento di quei settori dove c’è già un presidio industriale italiano. 

Sono i campioni del made in Italy che vengono censiti annualmente dal Centro Studi di Intesa San Paolo. Sono i campioni dell’export. E, come registrano puntualmente le analisi di Fondazione Symbola, sono realtà che nella nuova economia globale dominata dai principi della sostenibilità e della transizione energetica, si sono già ricavate delle nicchie di livello mondiale. Solo che al momento sono appunto ancora solo nicchie. 

L’elenco sarebbe lunghissimo, ma è proprio questa capacità d’urto collettiva che costituisce la loro forza. Assieme all’attitudine a lavorare in squadra sviluppata fin dall’epoca dei distretti industriali della fine del secolo scorso. Attitudine che oggi, grazie alla digitalizzazione, si declina con meno riguardo al fattore della vicinanza territoriale (che pure quando c’è non guasta). 

I settori coinvolti sono praticamente tutti: dall’agroindustria alla chimica, dai trasporti alle macchine automatiche. Ovunque ci sono imprese che se prese da sole significano poco, ma considerate in un quadro più ampio assumono tutt’altro peso. Prendiamo la filiera dello sport: fondazione Symbola ne ha presentato uno spaccato nei giorni scorsi a Roma, individuando cento aziende italiane che rappresentano casi di eccellenza. 

Sono tutte aziende piccole, nomi sconosciuti ai più ma ben noti là dove si investe nella creazione di eventi sportivi di livello mondiale. Come la Dz Engineering, sistemi di illuminazione, a cui nel 2008 è stata affidata la realizzazione del primo Gran Premio di Formula 1 in notturna. Un risultato raggiunto battendo la concorrenza di un paio di multinazionali grazie a un’offerta più flessibile e attenta alle esigenze del committente (le multinazionali, si sa, sono parecchio rigide e non modificano mai i loro prodotti). E da allora illumina gare di Mondiali e Olimpiadi, dalle piste dei motori alle nevi dello sci. 

O come la Piscine Castiglioni, partita negli anni Sessanta realizzando piscine per ville private dei ricchi del boom e che ora fa invece i tre quarti dei suoi centotrenta milioni di fatturato realizzando impianti natatori in grado di ospitare grandi eventi sportivi, Olimpiadi comprese. E che ha prodotto diversi brevetti di piscine intelligenti, dai sistemi modulari che consentono alle piscine di essere montate velocemente e altrettanto velocemente smontate, oppure i sistemi di filtraggio dell’aria per abbattere le cloramine derivanti dal trattamento dell’acqua delle vasche. 

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Oppure ancora la Mondo, che ha portato le sue piste di atletica in ognuna delle ultime tredici Olimpiadi finora organizzate. Sono tutte imprese che hanno poco spazio in Italia dove gli impianti sportivi pubblici – che pure tanto potrebbero dare dal punto di vista educativo, formativo, sociale e culturale – sono tantissimi ma tutti in pessime condizioni, non rinnovati, mal funzionanti. Una spesa pubblica non tanto maggiore ma meglio orientata come obiettivi di uso e qualità di realizzazione, creerebbe un indotto considerevole, che sarebbe poi basato su tecnologia e competenze italiane.

Una simile rivoluzione potrebbe avvenire anche nei trasporti. Basterebbe iniziare a guardarli con occhi diversi. Se i trasporti devono diventare sostenibili, hanno bisogno di energia pulita. E la produzione di energia pulita deve avvenire il più vicino possibile. Pensiamo ai porti. In Italia ci sono oltre centotrenta porti commerciali: tanti ma un numero coerente con la lunghezza delle coste del Paese. 

Ogni porto commerciale ha la sua zona industriale, spesso ormai sottoutilizzata (basta guardare Genova o Marghera, o Porto Vesme in Sardegna). Aree che possono ora ospitare impianti fotovoltaici, o a biomasse per produrre gas verde o, tra poco, elettrolizzatori per produrre idrogeno verde. Sarebbero la base per la transizione verde del traffico marittimo nel Mediterraneo, fornendo elettricità per le navi ferme in banchina per le operazioni di carico e scarico (dalle grandi porta container alle navi da crociera), che oggi vengono svolte grazie ai loro grandi motori a gasolio costantemente accesi. 

I porti sarebbero la base ideale per distribuire il gasolio verde, come l’Hvo dell’Eni. Perché anche prima della attuale crisi delle auto elettriche c’era la certezza assoluta che i motori a combustione non sarebbero mai andati in pensione nei trasporti pesanti: navi, aerei e tir non potranno mai viaggiare a batterie, almeno per molti altri decenni. 

Per arrivare a questo c’è strada da fare, come spiega Assiterminal, l’associazione delle imprese dei terminal portuali, nel Position Paper pubblicato lo scorso 9 dicembre, dove spiega che è necessario incentivare l’autoproduzione di energia rinnovabile, l’elettrificazione delle banchine e l’adozione di carburanti alternativi attraverso strumenti premianti nei regimi concessori. Ma bisogna anche investire in infrastrutture di stoccaggio e in processi di fornitura di carburanti alternativi, gestiti con un approccio centralizzato. I porti devono evolvere verso la funzione di hub energetici flessibili in grado di garantire l’approvvigionamento dei diversi combustibili puliti del prossimo futuro. Stesso concetto ribadito pochi giorni prima nell’assemblea annuale di Fondazione Pacta, che si occupa di decarbonizzazione del trasporto aereo.

Si è detto che gli aerei di nuova generazione consumano il trenta per cento di carburante in meno, ma ne volano pochi, sono oggi appena il venticinque per cento della flotta mondiale. E il modo migliore per decarbonizzare i voli è affidarsi da subito al Fan, l’equivalente per aerei dell’Hvo, un combustibile che non utilizza fonti fossili ma solo rinnovabili e che abbatte in misura ragguardevole le emissioni. Eni, che è oggi il secondo produttore di biocarburanti in Europa e il terzo nel mondo, ha già due raffinerie in funzione, a Marghera e a Gela, sta completando la terza, riconvertendo l’impianto di Livorno. E attende le decisioni Ue sulla revisione del blocco ai motori termici per le auto nel 2035. 

Se ci sarà, oltre che una spinta alla ripresa dell’industria europea dell’auto, sarà anche un forte impulso ai biocarburanti made in Italy: dall’Eni giù per tutta la filiera dell’indotto, produttori di impianti, sistemi di pompaggio e stoccaggio e così via. Se non avverrà, Eni si limiterà a produrre per navi e aerei e esporterà il resto fuori d’Europa, ma sarà un attore più marginale. 

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Come ha detto al convegno di Pacta David Chiaramonti, docente del Dipartimento Energia del Politecnico di Torino, l’industria potrebbe oggi produrre due volte e mezza il livello attuale di biocombustibili. Sarebbe una svolta sia per la filiera industriale che per la decarbonizzazione dei trasporti in tempi molto più rapidi. Per tutte queste svolte, sia in Europa che in Italia, servono risorse pubbliche perché non sono operazioni che si possano lasciare ai privati. Per quantità di fondi necessari e maggiore lunghezza dei tempi di ritorno degli investimenti che solo i governi possono muovere. 

Come ha ricordato alcune settimane fa, al convegno organizzato a Roma dalla Luiss l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi, è vero che l’Unione europea può portare alle varie Cop, le conferenze mondiali sul clima, il buon risultato di aver ridotto del trenta per cento la domanda di energia fossile per l’economia, e di volerla portare presto al quaranta per cento, ma lo ha fatto portando l’industria fuori dall’Europa.

L’Europa, insomma produce meno emissioni perché ha meno fabbriche e più terziario. Ma il Covid prima e le tensioni geopolitiche poi, dalla guerra commerciale Stati Uniti-Cina alle guerre militari in Ucraina e Medio Oriente, hanno dimostrato che senza industria tutta l’economia prima o poi si ferma. E su questo dovranno riflettere bene sia a Bruxelles che, per parte nostra, a Roma. 



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