Il 5 agosto scorso, la primo ministro Sheikh Hasina, leader della Lega Awami, il partito dell’indipendenza del Bangladesh, lascia in fretta e furia la capitale del suo paese, Dacca. Trova rifugio nell’amica India, per non tornare, almeno per ora, a casa. L’esercito del Bangladesh insedia immediatamente un governo di transizione guidato da Mohamed Yunus, banchiere, premio Nobel, grande amico dei Clinton.
Il Bangladesh da molte settimane era sconvolto da proteste e manifestazioni. Le vittime erano già alcune centinaia. Rivolta popolare e studentesca o rivoluzione colorata organizzata o manipolata dagli Stati Uniti?
Zbigniew Brzezinski sosteneva che l’Ucraina è un perno geopolitico perché la sua stessa esistenza come paese indipendente aiuta a trasformare la Russia: senza l’Ucraina la Russia cessa come impero eurasiatico… se riprende il controllo dell’Ucraina con i suoi 52 milioni di abitanti, e l’accesso al mar Nero, la Russia riacquista i mezzi per diventare uno stato potente. E se al posto di Ucraina, scriviamo Russia, Mar Nero, scriviamo Bangladesh, India, Golfo del Bengala, si ottiene una prospettiva sorprendente che fende la nebbia. Con queste parole un importante ex ambasciatore indiano, ora autorevole analista geopolitico (che abbiamo avuto il piacere di conoscere), M.K. Bradrakumar ha spiegato, su un giornale indiano, la situazione geopolitica del e attorno al Bangladesh alla luce degli avvenimenti che hanno scosso quel paese.
Ma il Bangladesh è un paese importante anche per l’Italia: una delle mete preferite dalle migrazioni Bangla infatti è proprio il nostro paese. La presenza e l’organizzazione delle comunità bangla, Roma in testa, ne è una prova. Basta girare un pochino per strade e piazze dell’Esquilino e per il mercato ex Piazza Vittorio, per accorgersi con un colpo d’occhio del forte insediamento di migranti bangla. Anche la fiction televisiva se n’è accorta con la seria intitolata proprio ‘Bangla’. Insomma siamo alle prese con un paese importante: per la sua collocazione geografica e geopolitica, che condiziona direttamente i delicatissimi equilibri politico-strategici dell’Asia meridionale di quella regione cerniera che è il golfo del Bengala; per il suo peso nel mondo musulmano, con i suoi 170 milioni di abitanti; infine per il nostro piccolo paese, i suoi migranti.
Alla fine del 1970-inizio del 1971, l’attuale Bangladesh (che poi non è altro che la parte a maggioranza musulmana della storica regione indiana del Bengala) era ancora il Pakistan orientale, o East Pakistan.
Nella (assurda) partizione dell’Impero anglo-indiano, voluta da Londra seguendo l’orientamento del leader della Lega Musulmana Mohamed Ali Jinnah, nacquero due stati successori, l’India che conosciamo e il Pakistan. A essere precisi c’era anche un terzo stato, il Principato del Kashmir il cui territorio è tuttora l’oggetto dell’infinito conflitto indo-pakistano. Il Pakistan era un paese molto ‘strano’, diviso territorialmente in Pakistan occidentale, Punjab, Sind, Belucistan, territorio delle Agenzie, e Pakistan Orientale, l’East Bengala, due Pakistan dunque divisi da centinaia e centinaia di chilometri di subcontinente indiano sotto la sovranità dell’India. Nacque così un paese profondamente spaccato costituito da province molto diverse tra loro per storia, cultura, lingua e unite da un solo elemento, peraltro interpretato diversamente, la religione islamica.
È interessante annotare che, se Londra avesse seguito l’orientamento del Mahatma Gandhi, e quindi se l’Impero anglo-indiano avesse avuto un solo stato successore, ovvero l’India unita di hindu e musulmani, quest’ultima sarebbe stata la più importante nazione musulmana del mondo, e sarebbe stata di per sé, pacificamente e senza provocazioni imperialistiche, il naturale bilanciatore strategico della Cina. Nonché il grande ponte dell’Occidente verso il mondo islamico. Ma così non è stato per la mancanza di fiducia, per così dire, di Londra e Washington verso l’India socialista democratica del Pandit Nerhu. Così, grazie a quella decisione di partizione, non solo centinaia di migliaia di persone sono morte durante il grande esodo, ma oggi abbiamo anche una India perennemente alle prese con l’eterno arcinemico Pakistan e con un sistema regionale di piccoli paesi che possono giocare alla geopolitica. Che dire? La capacità di previsione anzi di preveggenza storica di Londra e Washington era allora ed è oggi decisamente eccellente.
Il Pakistan è sempre stato dominato e governato dalle classi dirigenti dell’ovest. Ma alla fine del 1970, alle elezioni finalmente concesse dal regime militare filoamericano, vince il partito dell’est, la Lega Awami, un partito laico e socialista guidato da Sheikh Mujibur Rahman (il papà di Hasina, la premier costretta all’esilio): il Pakistan orientale infatti era popolosissimo, e il partito dell’est conquistò 160 seggi su un totale di trecento. Le classi dirigenti di Karachi e Lahore non potevano certo accettare un governo bengalese, per giunta pure laico; dopo lunghe e infruttuose trattative con gli altri partiti e i militari, ci fu la rottura. Il 25 marzo del 1971, per stroncare le proteste bengalesi che chiedevano l’ovvio rispetto delle elezioni, il presidente della Repubblica, un generale, Yahya Khan, scelse la soluzione militare. Fu lanciata l’operazione Searchlight, il 26 marzo la dichiarazione di indipendenza di Mujibur Rahman, nel frattempo arrestato dai pakistani, fu letta alla radio da un lato ufficiale (Ziaur Rahman, nessuna parentela, il papà della leader del principale partito di opposizione alla Awami, il BNP, Partito nazionalista del Bangladesh). Il 26 marzo è il giorno dell’indipendenza. Inizi la guerra di liberazione del Bangladesh. E i massacri da parte dell’esercito pakistano e delle milizie paramilitari di orientamento ultra-integralistico. Alcuni osservatori parlano di trecentomila o addirittura tre milioni di vittime del massacri pakistani. Al di là dei numeri precisi si trattò di un tentativo di genocidio.
Gli Stati Uniti – era allora presidente Richard Nixon – si mossero subito per sostenere i generali massacratori. Nixon inviò la portaerei Enterprise nelle acque del Golfo del Bengala. Ma la prima ministra indiana, Indira Gandhi, non era tipo da farsi mettere le dita negli occhi da Nixon. Prima si coprì politicamente siglando il Trattato di amicizia fra India e Unione Sovietica, poi anche di fronte alle massicce ondate di profughi che dal paese martoriato si riversavano sull’India, mobilitò l’esercito indiano. Intanto il Pakistan aveva attaccato l’India e l’URSS aveva inviato un sottomarino nucleare per sorvegliare, diciamo così, la portaerei americana. La mossa di Indira ebbe pienamente successo: gli Stati Uniti furono neutralizzati nel loro sostegno ai generali massacratori pakistani e il Bangladesh potè diventare indipendente. Con una costituzione laica e guidato dal leader della Lega Awami.
Il sistema politico del Bangladesh è sempre stato oltremodo vivace: dominato dallo scontro durissimo fra la Lega Awami, laica, proindiana, del clan familiare di Mujiab Rahman, e il BNP, Partito nazionalista del Bangladesh, conservatore, propakistano, del clan familiare di Zaiur Rahman. Un sistema politico bipartitico particolare e inframezzato da continui interventi militari.
Arriviamo all’oggi. Le manifestazioni degli studenti che hanno dato origine all’attuale crisi, sono state motivate in primo luogo, dalla cosiddetta politica delle quote. Ad alimentare la protesta anche la contestazione dello stile autoritario della prima ministra Hasina. Scioccata dalla morte del padre, era particolarmente diffidente verso proteste e contestazioni.
La politica delle quote è stata l’issue iniziale fondamentale delle proteste. Le quote riguardano gli impieghi nelle pubbliche amministrazioni riservati per una parte esorbitante ai combattenti per la libertà, ovvero per l’indipendenza, e ai loro discendenti. In tal modo era stato creato un vero blocco sociale a sostegno di fatto della Lega Awami che però ostruiva i canali della mobilità sociale al mondo dei giovani istruiti. Era insomma un meccanismo discriminatorio.
Gli studenti, dall’altra parte, hanno sempre svolto un ruolo importante nella politica del Bangladesh, tanto che gli stessi partiti hanno legami forti con le rispettive ali giovanili. Alle proteste studentesche, che avevano motivi e ragioni più che fondate, si sono poi unite le organizzazioni integralistiche, in parte figlie delle milizie che sostennero l’esercito pakistano nella guerra di liberazione contro il popolo del Bangladesh. Fin qui le ragioni domestiche della crisi.
Se osserviamo su una carta geografica il Golfo del Bengala che si stende dalle coste del Tamil Nadu e della Malesia a sud fino all’immenso delta dei fiumi indiani e alle coste birmane, a suo nord troviamo tre punti critici: il Bangladesh, il Manipur, uno stato molto turbolento del turbolento Nord est indiano da mesi in un conflitto di carattere etnico, e ovviamente il Myanmar, che è in una condizione di vera e propria guerra civile.
Siamo nella giuntura geopolitica tra India-subcontinente indiano e Sud est asiatico, Thailandia-Malesia-Vietnam, un vero mosaico, calendoscopio di tribù, tradizioni, etnie, religioni che costituiscono, allo stesso tempo, la porta meridionale interna (via Yunnan) della Cina e la porta orientale dell’India. Lo stesso Bangladesh, come scrive Bhadrakumnar, e la porta verso il Nord est indiano. Aggiungiamo, è il ponte fra Tibet, Nord est indiano, Golfo del Bengala; via Nathu La, il passaggio himalayano che potrebbe diventare un passaggio chiave in caso di incremento della cooperazione sino-indiana. A questo punto, con l’aiuto della geografia, è chiaro come il Bangladesh sia un punto decisivo per l’Asia dinamica: non è un caso che costituisca sia uno snodo di una delle grandi rotte della BRI, la nuova Via della seta made in China, sia per una eventuale strategia da impero del caos.
Dalla geografia ai fatti.
Sheikh Hasini è la leader del partito proindiano, e difatti, quando è uscita forzosamente dal paese, lo ha fatto andando nell’amica India. Ma poche settimane prima dei fatti di agosto, a luglio, Hasina è stata ospite del governo cinese e ha incontrato anche Xi Jinping. Hasina e Xi hanno stabilito la natura della relazione Pechino-Dacca come partnership strategica comprensiva, quindi molto forte. E la Cina avrebbe elogiato Hasina per il suo rifiuto di consentire l’insediamento di una base militare straniera. Dove per straniero si sarebbe inteso Stati Uniti. Morale: Hasina, pur tra ovvie contraddizioni, era allo stesso tempo pro-indiana e amica della Cina: forse era un punto di incontro fra i due giganti dell’Asia e del mondo BRICS.
La sua fuga e la fine del suo governo, nonché la designazione come primo ministro ad interim di Mohammed Yunus, quindi fanno pensare. D’altro canto, il passaggio Cina-NathuLa-India-porti del Bangladesh costituirebbe una enorme opportunità di relazioni pan-asiatiche e sino indiane. Se questo snodo prendesse vita allorché il contenzioso di frontiera fra India e Cina fosse risolto o almeno surgelato definitivamente, ci sarebbe un importante salto di qualità per tutta l’Asia. Ciò non sarebbe minimamente gradito a molti potenti interessi geopolitici tradizionali. E chiunque non gradisca tutto ciò aveva nella crisi del Bangladesh e del governo Hasina un’occasione ghiottissima per affermarsi. E così appare che sia stato.
A Delhi si sono fortemente preoccupati per gli accadimenti del Bangladesh, e pare che non l’abbiamo presa affatto bene circa il possibile ruolo degli Stati Uniti. In una dichiarazione rilasciata all’’Economic Times, l’ex prima ministra Hasina ha detto,
Mi sono dimessa in modo da non dover vedere la processione dei cadaveri, volevano prendere il potere sui cadaveri degli studenti, non l’ho permesso, mi sono dimessa dalla premiership, avrei potuto rimanere al potere se avessi rinunciato alla sovranità dell’isola di St Martin e avessi permesso agli Stati Uniti di controllare il Golfo del Bengala.
L’accusa non potrebbe essere più chiara. La cosa interessante non sono solamente le parole durissime di Hasina contro Washington, ma il fatto che la sua dichiarazione sia ospitata sull’Economic Times, l’importante giornale economico indiano.
L’ambasciatore Bhadrakumar, in un altro commento, non a caso aveva parlato di Hasina, come di una amica da lungo tempo testata. E aveva avvertito il governo indiano di Narendra Modi sul ruolo che gli Stati Uniti potrebbero aver avuto a Dacca e nell’insediamento del governo provvisorio guidato da M. Yunus, un personaggio che sarebbe molto legato ad alcuni ambienti politici americani e sul quale Washington da tempo avrebbe investito. È interessante annotare che anche il Global Times, giornale ufficioso di Pechino, riporta le gravi accuse di Hasina agli Stati Uniti. In un pezzo dell’8 agosto, titola, ‘Hasina accusa gli Stati Uniti di essere coinvolti nella sua rimozione’, e poi cita sia l’ex prima ministra sia esponenti del suo partito, la Lega Awami. Il tutto per una isoletta?
Che cosa ha di così importante questa isoletta, St Martin, al largo delle coste del Bangladesh, tanto che gli Stati Uniti, che pur non lontanissimo da lì hanno la loro più grande base oltremare, in pieno Oceano Indiano, Diego Garcia, pare che intendano metterci le mani sopra? Ha la sua posizione geografica: da lì si ha il pieno controllo di India, Cina, Myanmar. Da lì si può sorvegliare una regione immensa e politicamente delicatissima. Dunque saremmo di fronte a un colpo di mano per una isoletta nel Golfo del Bengala, regione comunque importantissima, la giuntura geopolitica asiatica, tanto che un altro analista politico parlando del Bangladesh lo ha messo in relazione con la gravissima crisi in Myanmar e con gli accadimenti politici della Thailandia, e ha parlato di ‘nuova partizione dell’Asia meridionale e sudorientale’, ovviamente fra i grandi interessi geopolitici.
In realtà ci potrebbe essere di più, molto di più dietro i fatti di Dacca. In primo luogo c’è la missione russa del primo ministro indiano Narendra Modi, totalmente sgradita a Washington. Il colpo di mano contro la grande amica dell’India, è un segnale americano contro questa visita calorosa di Modi alla corte del presidente russo? Anche questo dato non può essere tralasciato. L’implementazione pratica della strategia del ‘multi allineamento’ da parte del governo Modi insomma ha scottato Washington, anche se non era la prima volta che un governo nazionalista indiano, lasciava con l’amaro in bocca i pianificatori strategici americani. Atal Vaijpee, primo premier del BJP, aveva a suo tempo rifiutato la parte citazione indiana alla ‘willings coalition’ per l’invasione dell’Iraq messa in piedi dall’amministrazione Bush-Cheney. La storia, insomma, si ripete con i governi del BJP.
C’è un processo geopolitico infatti che può preoccupare Washington ancora di più, il che è tutto dire, delle intese dell’India con la Russia. È il dialogo che potrebbe sfociare in cooperazione fra India e Cina. Se c’è un incubo infernale per una Washington dominata dalla dottrina Wolfowitz è Chindia.
Con l’avvento al potere a Delhi di Narendra Modi, e a Pechino di Xi Jinping, i rapporti Delhi-Pechino erano sulla via di un considerevole miglioramento. Ci sono stati all’epoca anche alcuni vertici bilaterali culminati nel summit di Mamallapuran, in Tamil Nadu. Questo spirito di Mamallapuram si è dissolto completamente con i gravi incidenti di confine del 2020-2021. Da allora le relazioni fra i due giganti asiatici sono diventate molto problematiche, pur in presenza di strette relazioni commerciali ed economiche. Ma le cose stavano migliorando sul fronte sino-indiano. Non è un caso ad esempio che proprio l’8 agosto, quasi in contemporanea quindi con gli ultimi sviluppi della crisi del governo Hasina, sia uscito un commento sul Global Times: ‘Ultimamente – scriveva – ci sono segni che le tensioni fra India e Cina si stanno allentando, i ministri degli esteri di entrambi i paesi hanno indicato la volontà di spingere per risolvere le controversie di confine e migliorare le relazioni generali India-Cina’.
Le relazioni sino-indiane sono infatti strettamente collegate, la diplomazia indiana lo ripete regolarmente, a una sistemazione delle controversie di confine, ereditate dalla storia dell’Impero britannico.
Da agosto a ottobre, ci sono altri incontri, sia nell’ambito del formato dei colloqui fra i militari per disinnescare i conflitti, sia come summit fra gli esponenti dei due governi. Insomma la via di un dialogo sino-indiano, assai probabilmente sotto gli auspici di Mosca, strettissimo partner di entrambi, stava procedendo. E difatti, due mesi dopo i fatti del Bangladesh, il 24 ottobre, il vertice BRICS di Kazan ha visto il primo incontro fra il presidente cinese e il primo ministro indiano, dal 2019, subito dopo il raggiungimento di una intesa per evitare scontri sul confine del Ladakh. ‘Analisti cinesi hanno dichiarato che l’incontro ha una importanza strategica poiché la ripresa delle relazioni fra Cina e India non serve solo gli interessi di entrambi i paesi, ma anche la multipolarizzazione dell’ordine mondiale’.
L’incubo Chindia rischia di prendere corpo, le contraddizioni sono tantissime, ma le cose sotto gli auspici di Sergei Lavrov erede di E. Primakov potrebbero ulteriormente muoversi. A questo punto si comprendono le forti ragioni geopolitiche di una Washington. Un governo filo-americano in Bangladesh in questo senso potrebbe essere molto importante in questa logica: rende più instabile la già difficilissima situazione in alcuni stati del nordest indiano, Manipur in particolare; rende ancora più instabile la situazione di guerra civile in Myanmar e di fatto circonda l’India a ovest con l’arci-nemico Pakistan, a est con un Bangladesh nelle mani dei nemici di Delhi.
Sia come sia, il 30 settembre scorso il sito di giornalismo investigativo, www.thegreyzone.com svela ‘I file che espongono l’operazione coperta del governo Usa per destabilizzare la
politica del Bangladesh’. L’analisi del sito è esaustiva? Oggigiorno la storia si muove rapidamente: M. Yunus ha come punti di riferimento americani, i Clinton. Ma Kamala Harris ha perso; ha vinto, anzi stravinto Donald Trump che non ha molto in simpatia gli amici dei Clinton. Hasina quindi potrebbe trovare un interlocutore nuovo a Washington contro Yunus. Non solo: le relazioni Bangladesh-Cina sono troppo articolate per poter essere rapidamente disarticolate. C’è la cooperazione economica, ci sono gli investimenti per i corridoi strategici, c’è anche cooperazione nel settore della difesa. E d’altra parte basta ricordare il caso pakistano: un paese, cugino del Bangladesh peraltro, legatissimo e alleato strategico degli Stati Uniti, membro chiave a suo tempo della CENTO (la vecchia NATO mediorientale), con Iran, Iraq, Usa e Gran Bretagna. Ma anche paese molto vicino a Pechino, i cui militari sono disposti a destituire Imrah Khan, premier popolarissimo ma fortemente incline verso Mosca (e Pechino), ma non disposti a tagliare i legami con la Cina. I militari assai probabilmente sono in sintonia con quelli pakistani.
Infine, l’Italia: come detto all’inizio, il nostro paese è destinazione di migliaia e migliaia di migranti dal Bangladesh. Due paper sono interessanti al riguardo: il primo del 6 febbraio 2012, ‘Le migrazioni dei cittadini Bangladeshi verso l’Italia’ che prevedeva 118mila migranti bangla in Italia per il 2015, 232mila per il 2030. Il secondo paper è dell’agosto 2024 ‘Migrazione Bangladeshi nel Mediterraneo’, e mette in luce tra l’altro la spinta che proprio la crisi politica a Dacca potrebbe dare per ulteriori flussi.
Morale: il Bangladesh per l’Italia è un paese importante sia per le vicende geopolitiche e il confronto fra le geopolitiche di Stati Uniti, India, Cina, sia per il tema cruciale delle migrazioni. Un po’ di attenzione non sarebbe male, quindi.
Citazioni e note:
Rivoluzione colorata in Bangladesh, M. Bhadrakumar
Bangladesh, i colori dell’agosto was last modified: Dicembre 10th, 2024 by
Bangladesh, i colori dell’agosto
ultima modifica: 2024-12-10T22:42:35+01:00
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