Conflitto sociale e repressione, il ritorno della «democrazia Reale» –

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Nel 1975 la legge Reale dispose tra le altre cose l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine con molta più facilità. Si apriva la fase della legislazione dell’emergenza

di Davide Conti da il manifesto

In principio fu la circolare del 26 luglio 1943 emanata all’indomani della caduta del regime fascista a disporre misure emergenziali per l’ordine pubblico. Il testo era firmato dal presunto criminale di guerra generale Mario Roatta.

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Precisava che «qualunque pietà e riguardo nella repressione è un delitto» e aggiungeva «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito» intimando ai militari «Si tira sempre a colpire come in combattimento». Lo stato d’assedio disposto contro le manifestazioni popolari organizzate contro il fascismo e contro la guerra provocò oltre 80 morti, 300 feriti e 1.500 arresti.

Nel dopoguerra la Repubblica nata dalla Resistenza ma guidata da un governo conservatore varò, il 18 marzo 1950, un piano straordinario d’intervento finalizzato a: impedire le occupazioni delle terre; assegnare al prefetto la possibilità di vietare fino a tre mesi le manifestazioni pubbliche; proibire comizi all’interno delle fabbriche; vietare lo «strillonaggio» dei giornali nelle strade. Una delibera del governo definita da Piero Calamandrei «Dichiarazione dei diritti dello Stato di Polizia».

Mentre prendeva corpo il conflitto di Corea e si entrava negli anni della Guerra Fredda, il 1 giugno 1950, venne emanata la «circolare Pacciardi» con cui il ministro della Difesa militarizzò l’ordine pubblico collocando il conflitto sociale in una dimensione che faceva del movimento operaio e contadino un «nemico interno» dello Stato e una «quinta colonna» comunista. Con quegli ordini il Comandante militare territoriale divenne responsabile delle truppe in operazioni di ordine pubblico mentre i militari furono autorizzati a sparare sui dimostranti «dopo rapida e serena valutazione della situazione» e ad eseguire arresti indiscriminati tra la folla.

Tali misure portarono ad un bilancio rappresentato (e mai smentito dal governo) da Pietro Secchia in Parlamento nell’ottobre 1951: negli incidenti tra manifestanti e forze dell’ordine dal gennaio 1948 al luglio 1950 vi furono tra i lavoratori 62 morti, 3.123 feriti, 91.433 arrestati, 19.313 condannati per 7.598 anni di carcere.
Su questi caratteri si andò formando la nozione degasperiana della «democrazia protetta» incentrata da un lato su un modello di sviluppo fatto di bassi salari, disoccupazione, alta produttività e sgravi alle imprese e dall’altro sul coordinamento delle leggi speciali contro scioperi e sabotaggi.

Nel 1952, contestualmente alla ratifica del piano anticomunista «Demagnetize» di matrice statunitense e adottato dal servizio segreto italiano, l’esecutivo Dc presentò la legge «Polivalente» ovvero una messa a sistema di tutti i provvedimenti elaborati in materia di ordine pubblico, disciplina del lavoro e diritti sindacali. Un intervento che si propose di riformare il codice penale in materia di conflitti sociali reprimendo scioperi, occupazioni di terre e fabbriche, sabotaggi e «scioperi al rovescio». Una legge che il 6 giugno 1952 ottenne «l’accordo e l’impegno» in Parlamento dei neofascisti del Msi per voce di Giorgio Almirante.

Dopo gli anni duri della Guerra Fredda fu l’autunno caldo operaio del 1969 a suscitare nuovi istinti regressivi. Alla fine dell’anno i sindacati presentarono le stime dei lavoratori denunciati che ammontavano a circa 10.000 persone per un complesso di 16.359 reati contestati e 143 arresti. La forza del movimento operaio impose l’approvazione contestuale (20 e 22 maggio 1970) tanto dello Statuto dei lavoratori quanto dell’amnistia promossa dal deputato socialista Giolitti.

In un quadro in cui fino al 1974 gli episodi di violenza politica afferivano per il 94% all’estrema destra il 22 maggio 1975 fu varata la «legge Reale» dal nome del repubblicano Oronzo Reale. Tra le altre cose la legge dispose l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine con molta più facilità ed impunità, reintrodusse il fermo di polizia, integrò le riforme sul raddoppio dei termini della carcerazione preventiva e anche sull’interrogatorio.

Si apriva la fase della «legislazione dell’emergenza» e del disciplinamento penale delle questione sociale in Italia. Un ritorno al passato denunciato da Lelio Basso: «La legge Reale ha alla sua base una concezione dei rapporti tra il cittadino e lo Stato che è stata la concezione tipica del fascismo, tipica del codice Rocco». Contro votarono Pci e sinistra indipendente.

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Posizione, quella dei comunisti, che non «tenne» alla prova dell’ingresso in maggioranza del partito quando la legge venne rinnovata l’8 agosto 1977. In quel passaggio – notano Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo – «per la prima volta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole ad un massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costituzionali». Una nuova postura del Pci che – scrive Paul Ginsborg – «sui temi cruciali che riguardavano i giovani politicizzati, il diritto a manifestare, i poteri della polizia, la detenzione preventiva, la riforma carceraria, vide i comunisti mantenere un silenzio che non lasciava presagire nulla di buono».

Quel nulla di buono si tradusse in 254 morti e 371 feriti in quindici anni di applicazione della legge che passò indenne anche il referendum per la sua abrogazione l’11-12 giugno 1978. Cinquanta anni dopo il varo della legge Reale, in un contesto in cui lo stato di guerra permanente e la crisi economica liberista informano in modo totalitario il nostro presente, il Paese guidato da un partito post-fascista torna a specchiarsi pericolosamente nella sua «democrazia reale».

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