La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace

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Diego Miscioscia (a cura di), La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace, edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2024, pp. 230, € 20,00

«La guerra è finita». Ma come? Con tutti questi conflitti armati che ci sono!  Titolo azzeccato, che incuriosisce e invita alla lettura.

«La tesi di questo libro è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti» è quanto si legge a pagina 142 di questo testo che le edizioni la meridiana hanno con molta lungimiranza recentemente pubblicato, in un periodo come quello che stiamo vivendo sempre sull’orlo di una estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico e alla mutua distruzione assicurata.

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Era dunque necessaria una riflessione che mettesse in evidenza elementi di un diverso percorso, in parte già intrapreso, per mettere definitivamente la guerra fuori dalla storia e realizzare concretamente processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.

Il testo – attraverso punti di vista scientifici diversi, biologici, psicologici e storici, e partendo da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra – si propone di mostrare come nel corso del Novecento il sistema guerra sia entrato in crisi; proprio a causa della sua irrazionalità e progressiva distruttività e inefficacia nel risolvere i conflitti a tutti i livelli e in tale contesto si siano sviluppate le competenze mentali della pace.

Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali, che mostra strategie orientate alla sopravvivenza e alla cooperazione più che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dai bonobo…

Il riferimento teorico più forte è però quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani, Franco Fornari e Luigi Pagliarani, che circa 60 anni fa elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione della risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.

Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare» essa «si innesta anche su meccanismi psichici e su dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno» (p. 192).

Non si potrebbero comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra se non si tenesse conto di ciò e non si fosse consapevoli, dunque, che per costruire una solida e concreta cultura di pace è necessario lavorare anche sulla dimensione profonda del mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.

Il testo intende perciò mettere in luce da un punto di vista psicoanalitico le radici affettive della guerra e le sue motivazioni profonde, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari.

In base a tale teoria, i valori e le motivazioni personali scaturiscono da logiche affettive diverse che fanno riferimento ai personaggi della scena familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e i codici sessuali, virile e femminile.

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«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza […]» (p. 131). È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna», che integri e armonizzi i codici affettivi diversi, senza che nessuno di essi sia radicalizzato, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale, che radicalizza il codice paterno.

È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra tutti i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace. Questo obiettivo sembra rappresentare lo stadio evolutivo più importante per superare la cultura della guerra» (p.78). Alcuni passi in questa direzione sono stati fatti anche grazie alle trasformazioni (avvenute nel corso soprattutto dell’ultimo secolo) che hanno favorito lo sviluppo delle competenze mentali della pace.

In uno specifico capitolo Miscioscia individua come significative in questa direzione tre condizioni:

  • il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero;
  • la crisi della cultura patriarcale, in seguito alla contestazione antiautoritaria e allo sviluppo dei movimenti femministi;
  • la globalizzazione economica, che ha fatto percepire, soprattutto alle nuove generazioni, la propria appartenenza al mondo intero, al di là delle singole nazioni.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, prima che le conquiste in termini di diritti umani e sociali siano effettivamente trasformate in una realtà per tutti, ma la direzione è segnata.

E comunque è significativo che a livello culturale sia emerso il rifiuto della guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali, come testimonia la creazione delle Nazioni Unite, o nel nostro Paese l’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra.

Poiché la mente umana è plastica e si trasforma in conformità a influenze ambientali, educative e culturali, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace, una crescita individuale e il raggiungimento della democrazia affettiva […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni» (p.117).

Nella Terza Parte del volume si individuano le azioni che possono incidere sui processi mentali orientandoli verso la democrazia affettiva. Esse sono: favorire l’integrazione culturale, che aiuta a sentirsi parte di una sola comunità; passare dal controllo al superamento della violenza, sviluppando una cultura educativa basata sulla nonviolenza invece che sulla repressione; una narrazione della storia pacifista e globale, come storia del mondo e delle sue diverse civiltà, e come valorizzazione delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi alternativi alla guerra, invece che celebrare i generali conquistatori e gli eroi guerrieri.

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Nell’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, ci sono diverse indicazioni pratiche su come parlare di guerra ai bambini, su cosa significa educare alla pace, su come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.

«Il contributo più importante cha abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità inderogabile della nostra epoca: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un‘utopia e con essa anche la speranza di rafforzare il benessere individuale e la salute mentale […] si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l‘ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali cui fare riferimento» (p. 183).

In Appendice sono opportunamente pubblicati il Manifesto di Einstein-Russell del 1955 e il Manifesto Promuovere una cultura di pace delle associazioni Ariele e Minotauro, che si ispirano al pensiero di Fornari e Pagliarani.

Un lavoro ricco di spunti e di suggerimenti importanti. Peccato per la presenza di imprecisioni  in alcuni riferimenti storico-culturali che nulla tolgono al valore delle tesi sostenute nel testo, ma che potevano essere evitate da una più rigorosa e accurata revisione delle informazioni riportate.

Ad esempio, il testo in tre volumi di Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, è stato tradotto dall’originale del 1973 e pubblicato in Italia nel 1985, 1986 e 1997 a cura delle Edizioni Gruppo Abele di Torino e non da Feltrinelli; Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962 e non nel 1952;  il MEAN non è tra le associazioni che hanno promosso il progetto di legge che prevede la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta e la stessa Rete Italiana Pace e Disarmo (RIPD) non si era ancora costituita, ma tra le associazioni promotrici della Campagna «Un‘altra difesa è possibile» c‘erano la Rete della pace e la Rete italiana per il disarmo, che poi confluiranno nella RIPD).

L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché il testo è davvero uno strumento prezioso. Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’UNESCO (firmata nel 1945) «poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.

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