Rutte chiama l’economia di guerra. Ma chissà se l’Europa la vuole…

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Meno pensioni più cannoni“: si può riassumere così l’agenda che il segretario della Nato Mark Rutte intende promuovere per il suo mandato alla luce del primo discorso di peso fatto dall’ex premier olandese al Concert Noble di Bruxelles. Nella giornata di ieri, Rutte ha evidenziato che per aumentare la sua sicurezza occorre che il blocco atlantico riesca “a passare a una mentalità da tempo di guerra” e che decida “di dare una spinta alla nostra produzione e spesa per la difesa”.

Rutte è stato a lungo un falco del rigore, dei tagli di spesa, dell’austerità. Vero e proprio “ultimo giapponese” del rigore, nel 2020 con l’Europa travolta dal Covid-19, tergiversò prima di aprire alla restrizione dei vincoli comunitari sul debito. Ora alla guida della Bruxelles atlantica chiede più spesa per armi e infrastrutture militari, ma non ha smesso di pensare al fardello delle risorse pubbliche indirizzate al Welfare come una riserva cui attingere, soprattutto in Europa.

L’Europa, ha notato Rutte, “spende il 25% per la salute e la previdenza sociale e per le pensioni,”, aggiungendo che per il riarmo “abbiamo bisogno solo di una piccola frazione di quella cifra. E non dimenticate che in Europa siamo siamo il 10% della popolazione mondiale ma spendiamo il 50% di tutta la spesa mondiale per la previdenza sociale”. Da qui lo slogan citato in apertura all’articolo, che ci sembra calzante per definire la “dottrina Rutte” e circola da mesi nei social italiani, soprattutto nel campo del centro liberale. A popolarizzarlo è stato l’economista dell’Università Washington a Saint Louis, Missouri, Michele Boldrin, che lo ha più volte presentato sul suo attivo profilo X.

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La presa di posizione di Rutte intercetta dunque un movimento d’opinione che in molti campi ha già preso piede e che su più punti di vista coniuga, perlomeno nel campo liberale, la necessità di dover giustificare la spesa pubblica solo se produttiva con la visione d’insieme geopolitica fondata sulla necessità di tutelare l’Occidente dai suoi avversari. Rutte ricorda nel suo discorso la minaccia russa, il riarmo cinese, l’instabilità globale. Evoca l’innalzamento della spesa militare come giustificato dalla necessità di far fronte a sfide sempre più cogenti. Ma forse il vero portato del suo intervento è in un altro passaggio del discorso.

Rutte ricorda infatti che “la nostra industria della difesa, qui in Europa, è stata svuotata da decenni di sottoinvestimenti e ristretti interessi industriali nazionali”, figli di un’epoca in cui il nostro continente era in pace e la difesa era diventata un optional”. Di conseguenza, “la nostra industria è troppo piccola, troppo frammentata e troppo lenta”. Questa osservazione appare forse più pragmatica e utile in tempi rapidi per gestire la corsa dell’Europa all’economia di guerra. Piaccia o meno ai decisori, le società europee vivono ancora del dividendo della pace lunga ottant’anni vissuta dal Vecchio Continente, e già scalfita da quindici anni di crisi.

Ragionando in termini liberali, forse prima che aumentata la spesa per la Difesa europea andrebbe innanzitutto razionalizzata, evitando sprechi, doppioni (due caccia di sesta generazione, due diversi carri armati e svariate iniziative di difesa aerea in sviluppo, ad esempio) ed egemonie di singoli Paesi e aziende, e favorendo invece acquisti comuni e sinergie, magari evitando di disperdere le economie di scala che si possono creare con acquisti di una notvole quantità di armamenti da Usa e Regno Unito coi fondi comuni europei. Si potrebbero avere più cannoni anche senza, necessariamente, imporre meno pensioni: a oggi le società europee capirebbero meno l’aumento dei primi se costretti a rinunciare alle seconde o a qualunque altro diritto acquisito. Ed è difficile disabituare una società a ciò che si è imparato a dare per assodato, anche in tempi difficili come quelli odierni.

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