la crisi della visione neoliberale come crisi di sistema – Alessandria Today Italia News Media

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Di Filippo Orlando 04/12/2024
Donald Trump ha vinto di nuovo le elezioni presidenziali americane lo scorso 6 novembre, battendo la candidata della élite democratica Camala Harris. Si sono scritte molte cose su questo successo repubblicano e sul significato profondo dell’evento per la democrazia USA e per la democrazia in generale e il suo futuro nel mondo. Che il ritorno di Trump alla presidenza sia un evento importante non vi è dubbio, ma il tycoon americano mi appare come il sintomo, l’evidenziatore di una crisi del pensiero neoliberale, che la causa degli eventi che osserviamo. Credo si possa inizialmente considerare che la visione neoliberale appare definitivamente in crisi dopo la vittoria di Trump nelle ultime elezioni presidenziali americane. E’ necessario qui sinteticamente definire in cosa consiste questa ‘visione neoliberale’. La visione del mondo Neoliberale era caratterizzata da un paio di assi centrali: da un lato la sottomissione gerarchica del mondo del lavoro al valore del comando del capitale, sia esso produttivo che finanziario, dall’altro il dominio della finanza americana e del libero-scambismo sui mercati mondiali. Inoltre, non si può che aggiungere che Trump, e la sua seconda vittoria nelle elezioni americane, sono oltremodo il sintomo, e non la causa, del determinarsi di una ormai endemica instabilità politica e istituzionale. Se il regime Neoliberale, dalla fine degli anni settanta, si è caratterizzato per una stabilità sociale e di sistema politico molto solida, evitando che emergessero  alternative di sistema al regime in atto, oggi vi è una lotta politica frenetica e priva di limiti nei colpi che si sferrano fra fazioni avverse, che pone in forse il vivere civile e gli equilibri della società liberale e oligarchica dominata dal capitale bancario e dalla regolazione economica  delle banche centrali. Dunque, si pone ormai in questione l’egemonia della visione neoliberale si riscontra un pericoloso incrinarsi del vivere civile; ecco i segnali preoccupanti dell’avanzare di una nuova stagione che vede Trump come entità che la inaugura. Ma sotto questi effetti evidenti vi sono come causa sommovimenti sociali profondi. Con l’andare degli anni, l’affermarsi pieno del modello neoliberale basato sul dominio delle imprese sul fattore lavoro e della Banca Centrale sulla determinazione dei tassi di interesse in regime di libero flusso dei capitali sui mercati mondiali, ha sconvolto gli equilibri fra le classi sociali, determinando l’ascesa di poche minoranze di finanzieri e gran funzionari di stato, e il declino delle classi medie spinte verso un impoverimento senza precedenti negli ultimi cinquant’anni. Si accentuano, inoltre, i contrasti fra imprese medie e piccole legate ai mercati interni nazionali, e le grandi imprese e le grandi finanziarie che hanno interesse a perpetuare il sistema economico finanziarizzato così come è dato dallo sviluppo dagli anni ottanta ad oggi. E’ questa lotta fra due forme del capitalismo, quello dei capitali industriali e collegati con le realtà nazionali, e quello dei grandi capitali bancari e internazionali, che deforma il sistema e crea una instabilità sociale e istituzionale ormai fuori controllo. Le classi sociali subalterne e i ceti medi sono anch’essi coinvolti nello scontro e nella crisi che si dipana sotto i nostri occhi. Le nostre società sono state caratterizzate, dal dopoguerra a oggi, dalla promessa che ogni generazione successiva avrebbe migliorato le proprie condizioni di vita rispetto alla precedente, all’interno di una cornice liberale di difesa dell’individuo e con un minimo di tutela sociale collettiva. E’ su queste premesse di fondo che il modello USA ha vinto la battaglia per l’egemonia culturale e sociale rispetto al modello comunista, e rispetto ad ogni altro impianto sociale alternativo. Ma oggi, l’ascensore sociale si è rotto, determinando uno sconquasso sociale che caratterizza l’emergere di ideologie regressive e l’instabilità di sistema di cui sopra. A livello internazionale si nota, ormai da più di quindici anni, un ritorno ai dazi doganali, ad un certo controllo dei capitali, al ripetersi di crisi internazionali fra grandi potenze che fanno impallidire le tensioni della guerra fredda. Il libero-scambismo è alla fine per volere primariamente della grande potenza USA. Il mondo non è più leggibile come ‘Grande villaggio globale’, come si diceva nei novanta’. La terra non è piatta e plasmata come una tavola dai capitali che vi scorrono sopra. Essa è ormai increspata da mille conflitti d’arme, culturali, economici e religiosi. E l’Occidente, di fronte ad un mondo che fatica a dominare come un tempo, si ritira in sé stesso e regredisce. Questo mi pare il significato della vittoria di Trump, malgrado tutto. Come spesso analizzato dai collaboratori della rivista Limes, conservare un impero significa spesso per la nazione imperiale assorbire le importazioni dei paesi alleati in cambio della fedeltà ad un regime di sottomissione più o meno graduato. Tuttavia, questa determinazione economica, provoca nella società della nazione a capo dell’impero sofferenze sociali che sono difficili col tempo da sopportare. Questa è la fatica dell’impero. Questo contrasto sociale che taglia le classi, i gruppi etnici, rimescolando le vecchie appartenenze in inediti fronti sociali, è agito attraverso contenuti ideologici caratteristici della fase attuale. I democratici rappresentano una America delle coste aperta al mondo e colta, e i movimenti antirazzisti e per la libera determinazione sessuale; i repubblicani di Trump incarna l’America dell’orgoglio bianco dei blue collar e dei ceti medi spaventati da processi di impoverimento e con l’incubo della sostituzione etnica.

Questi elementi culturali e diversi progetti di società, sempre più confliggenti e incapaci di sintesi universali forti, sono il dato ideologico con cui si gioca lo scontro sociale odierno, dentro una cornice di continua tensione internazionale che non accenna a placarsi. E questi elementi ideologici non sono solo banalmente sovrastrutturali, ma agiscono sulla struttura, se per struttura intendiamo l’economia con il suo portato di rapporti produttivi – sociali. Tra economia, cultura e sommovimenti sociali e partitici è spesso difficile tracciare confini netti, se non per comodità di studio delle componenti singole di una realtà in movimento.

Resta da determinarsi se il progetto di Trump, sociale e culturale, sia in grado di far uscire il sistema Occidentale dalla crisi enorme che sta vivendo, e se ha le risposte utili per riportare ordine nel sistema internazionale, oppure se esso è un prodotto di un sistema in crisi, un eruzione necessitata da una condizione ritenuta ormai inaccettabile, ma privo degli strumenti concreti e di pensiero per indicare la strada per la risoluzione dei più gravi problemi attuali. Francamente non si può che dubitare sulla possibilità che Trump abbia ricette e una analisi dei problemi; si ha, altrimenti, la netta impressione che il partito repubblicano agiti problemi reali e venda facili illusioni, ma non abbia per nulla il senso della profondità della crisi in atto, che è crisi di sistema e non congiunturale.

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Tuttavia, sarebbe necessario che la sinistra europea, almeno essa, con corretto sforzo di analisi, si dotasse di un forte impianto analitico a partire dalla comprensione che siamo in una piena crisi di sistema.

Il segno di Trump: la crisi della visione neoliberale come crisi di sistema




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