Simonetta Cesaroni, il delitto di via Poma dall’inizio: i 29 colpi di tagliacarte, il morso, i sospettati, le lacune nell’inchiesta. Dopo 34 anni «solo congetture»

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di Ilaria Sacchettoni

Tre indagati, un condannato (poi assolto) e un suicidio: c’è l’ipotesi di archiviare il filone d’inchiesta aperto nel 2022. Ma non finirà qui, perché sono già pronti altri due esposti

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Per cominciare, la ragazza di via Poma era lì, nell’ormai celebre via, solo part time. Prestata occasionalmente, due giorni la settimana, alla contabilità dell’associazione nazionale alberghi della gioventù (Aiag). Uno degli omicidi più indagati di sempre è divenuto un caso letterario di definizioni improprie e ambiguità lessicali, oltre al resto: un patrimonio di indizi inesplorati e verità nascoste. 

In 34 anni Simonetta Cesaroni è morta più volte, quasi sempre sotto il peso di errori e depistaggi altrui. Oggi che la verità sul suo delitto è appesa all’iniziativa del volenteroso pm Alessandro Lia, occorre ripartire dalle vere lacune dell’inchiesta.




















































Martedì 7 agosto 1990: il caldo equatoriale, e quelle chiavi

Martedì 7 agosto 1990 il quartiere Prati, stordito da temperature equatoriali, sembra voltato altrove. All’interno dell’appartamento al civico 2 una ventenne dall’aria fresca e i modi schietti studia i conti dell’associazione, chiusa da dentro con una chiave che è già un primo mistero, mentre fuori i portieri degli edifici sulla via, riuniti nel cortile, conversano attorno a un cocomero ormai tiepido. 
Nessuno vede. 
Nessuno assiste. 
Soprattutto nessuno (ancora oggi) sa dire quante copie della chiave che apriva l’interno degli uffici Aiag circolassero davvero. E quanti, dunque, avessero l’occasione di entrare. Primo deficit investigativo.

I 29 colpi con il tagliacarte, e un movente che non c’è

Lei, la ragazza, non è sola. Negli uffici, molto probabilmente, c’è già un uomo al quale, inizialmente, sfugge. Lui la raggiunge e quel che avviene da questo momento in poi sarà ricostruito dal medico legale: Simonetta, colpita da un forte schiaffo, cade. Lui le è sopra per colpirla alla testa con violenza. Lei sviene. Lui afferra un probabile tagliacarte (mai rintracciato) e colpisce 29 volte. 

Colpi vigorosi, assestati con l’energia di chi ha subito la frustrante esperienza di un rifiuto, si dirà. Congettura. Perché quello del movente, nel giallo di via Poma, si rivelerà esercizio da salotto in assenza di un vero colpevole. Simonetta Cesaroni si consegna così alla cronaca nera che la rappresenterà per sempre abbronzata in un costume intero sgambato, tipicamente in voga quegli anni, sullo sfondo di una spiaggia addomesticata. Libera. Sola.

Il corpo nudo, l morso sul seno, le tracce di Dna

È nuda, invece, quando la ritrovano. Sul seno c’è il segno di un morso con tracce di dna che solo nel 2007, diciassette anni dopo, saranno interpellate per crocifiggere il suo fidanzatino dell’epoca, Raniero Busco, infine assolto. Secondo deficit investigativo, stavolta commesso dai primi interpreti dell’autorità giudiziaria. Quella traccia, analizzata al tempo, avrebbe forse potuto parlare.
 
È un femminicidio? Almeno quattro inchieste più un numero monstre di piste (talune francamente caricaturali tipo quella secondo la quale il delitto è intrecciato alle scorribande dell’immancabile banda della Magliana) più ancora sospetti lievitati all’infinito. Fino all’ultimo, quello che vuole Mario Vanacore, figlio del portiere Pietrino, suicida nel 2010, tre giorni prima di riferire la sua verità all’udienza in Corte d’Assise dove Busco era imputato, quale omicida ideale. 

Per inciso la morte di Pietrino, in via Poma nel giorno dell’omicidio, e il biglietto da lui lasciato — «Vent’anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio» — rappresentano un nuovo colpo alla verità. Tutto, dal momento in cui Pietrino si lascia trascinare nell’acqua di Torre dell’Ovo, vicino Taranto, assume i connotati approssimativi, talvolta fantasiosi, della pista non riscontrabile.

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Così per il figlio Mario. «Nessun elemento concreto — scrive, infatti, la pm Gianfederica Dito il 13 novembre 2023 — risulta ravvisabile circa l’eventuale coinvolgimento di Mario Vanacore nella vicenda, in ordine alla quale, peraltro, lo stesso, insieme a Pietrino Vanacore e Giuseppa De Luca (sua moglie, ndr), era stato già iscritto nel registro degli indagati con una complessa indagine che ha anche contemplato la sottoposizione degli indagati a prelievi ematici, con successive analisi e comparazione dei campioni rispetto alle tracce rinvenute, con esiti però non risolutivi e anzi con risultati che escludevano compatibilità rispetto a tutti i soggetti sottoposti a prelievo». 

Vanacore jr è solo l’ennesima proiezione, il colpevole senza prove del giallo di via Poma, ridotto dal tempo alla stregua di test su cui misurare capacità cognitive e intuizioni più o meno felici. Oggi, pur opponendosi all’(ennesima) archiviazione del caso, la famiglia Cesaroni non insiste su Mario Vanacore preferendo suggerire agli investigatori d’inseguire quella prova scientifica che manca.

Paola Cesaroni, la sorella morta e quella scena «ripulita»

Simonetta lascia dietro di sé la scia di un dolore mai rielaborato, quello della sorella maggiore, Paola che, nel 2021, si affida all’avvocato Federica Mondani e al giornalista Igor Patruno (affascinato da questo giallo trentennale) per raccogliere elementi sufficienti a ripartire. Paola è la prima testimone del martirio di sua sorella e l’unica, oggi che papà Claudio è deceduto e mamma Anna ha raggiunto il traguardo degli 85 anni, in grado di lottare per la verità. Alle 23.30 di quel famoso 7 agosto, accompagnata dal suo ragazzo (Antonello Barone), dal datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, e dal figlio di quest’ultimo, Luca, dopo essersi fatta aprire la porta degli uffici dell’Aiag, Paola Cesaroni vede il corpo di Simonetta e la scena in buona parte ripulita. Nessun’arma. Niente abiti della vittima. Tracce contraddittorie.

Valle, Busco, Vanacore, Caracciolo Di Sarno: nuovi e vecchi sospetti

Lentamente, in questo mistero che resiste, affiorano nuovi protagonisti accanto ai vecchi, coperti ormai da veli di polvere e dubbi. Pietrino, il portiere, è morto ormai. Federico Valle, altro indagato celebre (figlio dell’architetto Cesare residente nello stabile) dopo essere stato inizialmente coinvolto e prosciolto per mancanza di prove, ha cambiato il proprio cognome e vive protetto dall’anonimato. Busco, uscito definitivamente di scena dopo la sentenza della Cassazione, è tornato nella casa di Morena a fianco di sua moglie, Roberta Milletarì. 

Si affaccia, allora, la figura di Francesco Caracciolo Di Sarno presidente all’epoca dell’Aiag che avrebbe mentito sul proprio alibi. Scomparso nel 2016, Caracciolo Di Sarno, avvocato, è oggetto di un repechage giudiziario che non porta a nulla. Il giorno dell’omicidio sarebbe stato visto rientrare nella sua abitazione con un pacco e successivamente uscire di casa con una grossa borsa. Il suo alibi pare aggredibile. Ma ecco il parere della pm Dito, volto a ridimensionare l’ennesima svista: «La polizia giudiziaria delegata ha proceduto all’identificazione e all’audizione dei soggetti citati nell’esposto e di quelli ai quali questi ultimi hanno fatto espresso riferimento. Nonostante ciò nulla di rilevante ai fini investigativi è emerso». 

Più definitivamente: «Occorre prendere atto dell’insussistenza di elementi idonei a incrinare la verosimiglianza di quanto sempre sostenuto da Francesco Caracciolo di Sarno». C’è poi la figura sbiadita di Fabrizio Guerritore proprietario di alcuni appartamenti in via Poma e in qualità di allievo della Scuola militare della Nunziatella di Napoli, possessore di uno «spadino decorativo compatibile con la tipologia di ferite inferte alla vittima». 

Guerritore avrebbe successivamente rilevato i locali nei quali fu rinvenuta la ragazza e dove oggi, trasformata la destinazione in un bed and breakfast, campeggia un cuore rosso kitsch su una delle pareti. 

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Nell’indeterminatezza alla quale il giallo di via Poma ci ha abituati capita che prendano quota le piste più disparate sostenute da circostanze «incolori» per utilizzare l’aggettivo della pm incaricata di archiviare anche questo esposto, il terzo presentato da Paola Cesaroni. «Occorre chiarire che la posizione di Fabrizio Guerritore risulta essere destinataria di un impianto meramente congetturale che non assurge neppure al grado del più flebile indizio».

Anche il simbolo/sintomo di presunte stranezze è ridimensionato: «Anche se l’installazione del cuore rosso si trovasse effettivamente nello stesso luogo del fatto ciò costituirebbe al più circostanza di cattivo gusto dalla quale sarebbe invero assai arduo inferirne un comportamento di criminologico rilievo». Nel frattempo l’orologio delle tracce biologiche segna il tempo. I pochi reperti dell’epoca, invano utilizzati ai primi del Duemila per inchiodare Busco, sono difficilmente interrogabili. 

Il «memoriale anonimo» e la mail anonima

Ci si aggrappa, addirittura, a un memoriale anonimo, inviato telematicamente nel 2022 dall’indirizzo mailveritaviapoma90@libero.it. I carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della Procura intraprendono verifiche anche qui, salvo scoprire che «le informazioni contenute nel memoriale risultano facilmente conoscibili da fonti aperte» e che dunque quel documento «non fornisce alcun utile elemento idoneo a indirizzare il prosieguo dell’attività investigativa». 

A giorni la gip Giulia Arcieri si pronuncerà sull’archiviazione sollecitata dalla pm Dito. Comunque vada il caso – via Poma non si chiuderà. Altri due esposti, coperti dall’indispensabile segreto, sono già in lavorazione. Chiedono i familiari che vengano utilizzate le nuove tecniche scientifiche per acquisire il dna di sedici persone entrate in contatto. La luna su via Poma ancora non tramonta.

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