Statali, il flop dello sciopero è un voto a favore del contratto

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Oscar Wilde ammoniva: “Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere…la seconda è ottenerla”. Pensavo proprio a questa massima qualche giorno fa quando sono usciti i dati della partecipazione reale dei dipendenti pubblici allo sciopero proclamato da Cgil e Uil lo scorso 29 novembre. Per chi ha chiesto a gran voce un referendum per sconfessare il voto favorevole espresso della maggioranza dei sindacati rappresentativi del settore al preaccordo sul contratto delle Funzioni centrali, il risultato dello sciopero è stato catastrofico. A scioperare è stata una percentuale di lavoratori ben al di sotto della stessa forza rappresentativa delle organizzazioni che hanno proclamato l’astensione. E questo è accaduto a poche settimane da quella firma, che secondo Cgil e Uil rappresenterebbe una insopportabile forzatura, nonché il tentativo di delegittimare chi ha detto no all’accordo. In sostanza, un sopruso così grave da giustificare “una rivolta sociale”, o quantomeno richiedere un referendum tra le lavoratrici e i lavoratori interessati.

Ora, per dire la verità, non ricordo che quando precedenti governi, di disegno politico opposto a quello attuale, decisero di bloccare del tutto le contrattazioni, da Cgil e Uil venissero richiesti referendum (né tantomeno si organizzarono scioperi). No, allora di rivolta sociale non si parlava, anzi si stava proprio zitti e muti per non disturbare il manovratore, lasciando soli noi di Confsal-UNSA ad organizzare la battaglia legale che, dopo due sentenze della Corte Costituzionale a nostro favore, ha riaperto la contrattazione, mettendo fine ad un decennio di sospensione dei diritti dei lavoratori.

Uscendo però dal gioco delle rispettive recriminazioni e con genuino spirito di collaborazione chiederei ai colleghi di Cgil e Uil di ragionare bene sui dati pubblicati dal dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Su 202.699 dipendenti in servizio nelle funzioni centrali dello Stato il giorno 29 novembre (cioè la platea dei lavoratori direttamente interessati all’intesa sul contratto di lavoro firmata i primi di novembre), hanno scioperato in 19.662, cioè l’11,88%. Se poi prendiamo in esame l’intero settore del pubblico impiego, comparto per comparto, la rilevazione è ancora più impietosa: 2,64% di adesioni nella Sanità, 4,37% nelle Regioni a Statuto Speciale e 9,83% nelle Funzioni Locali, 0,54% nella Presidenza del Consiglio, 6,05% nell’Istruzione e Ricerca, per un complessivo e poco lusinghiero (per i promotori) risultato finale del 6,21%.

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Se questa è la base per la rivolta sociale, forse servirebbe una pausa di riflessione. Qui non si tratta del solito giochetto della partecipazione in piazza alle manifestazioni, per il quale c’è un livello percepito e poi ci sono i dati della questura. Qui i numeri parlano chiaro e riguardano proprio coloro che hanno scioperato, rimettendoci i soldi della giornata. Ecco, il referendum c’è stato e purtroppo lo ha pagato di tasca propria, letteralmente, quella minoranza di colleghi. Basta questo per farla finita sulle polemiche sui sindacati gialli che difendono il governo per ragioni politiche? Perché se fosse così vorrebbe dire che il consenso per Giorgia Meloni e il suo governo avrebbe ormai raggiunto livelli bulgari tra i lavoratori pubblici, tanto che si dissocerebbe dalla linea governativa meno di un dipendente ogni dieci.

A Landini & c., quindi, consiglierei di non buttarla in politica e di riflettere se non sia proprio la linea del Piave scelta dal suo sindacato e dalla Uil l’unica vera forzatura ideologica in campo. Chiedere il recupero totale dell’inflazione come precondizione per firmare qualsiasi intesa vuol dire pensare che sia possibile, con tutti i vincoli interni e internazionali sui conti pubblici, inserire in manovra aumenti per i dipendenti pubblici per 30 miliardi (tanto vale il recupero integrale del potere d’acquisto perso nel triennio di vigenza del contratto), cioè per una cifra che raddoppierebbe il valore complessivo della manovra 2025, in cui 30 miliardi servono appunto per finanziare misure come il taglio del cuneo fiscale, la sanità e il sostegno alla natalità.

Davvero questi nostri colleghi pensano che aver portato a casa un amento dei salari di quasi il 6% (in assoluto e in percentuale la quota più alta da quando è ripresa la contrattazione) sia stato poca cosa? Davvero pensano che aver aperto la strada alla settimana di 4 giorni lavorativi per i dipendenti pubblici sia solo uno specchietto per le allodole? Se lo pensano sul serio vuol dire che hanno perso il contatto con la loro base che, infatti, nemmeno sciopera quando viene chiamata alla rivolta. I lavoratori hanno dimostrato nei fatti che cosa pensano del contratto firmato. E lo hanno fatto con ancora più decisione quelli che operano nelle funzioni non centrali dello Stato, quelle per cui il veto di Cgil e Uil sta per ora ancora bloccando ogni intesa. E anche questo è un dato di fatto su cui Cgil e Uil dovrebbero riflettere.



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