Marco Baroni, all’improvviso, è diventato un allenatore di culto

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Calcio libero, liberi dal calcio. La traiettoria di questa Lazio è una parabola perfetta sull’elusione delle aspettative: quelle dei tifosi biancocelesti, alla vigilia della stagione in corso, rasentavano lo zero. Amareggiati dal sarrismo, esausti dalla dirigenza, orfani di maghi, sergenti e re – Luis Alberto, Milinkovic, Immobile. Serviva un alto profilo, per risollevare l’ambiente: è arrivato Marco Baroni. L’uomo della gavetta, reduce da due notevoli salvezze, ma neofita in un palcoscenico come l’Olimpico. Dalla rabbia si è passati alla rassegnazione. Nessuno in estate dava un centesimo alla nascitura Lazio, a partire dai laziali. Nessuno intravedeva elementi per costruire o sognare. Tranne la nuova guida: «Voglio una squadra che ami le sfide come me», disse. All’epoca queste e altre parole s’erano perse nel Tevere. Oggi scombinano coppe e campionati. La Lazio sprinta, vince, domina e sprigiona appeal: in cima all’Europa League, in ballo per la testa della Serie A. Sembrano passati anni luce, sono soltanto sei mesi. L’unico che non ha mai smesso di insistere sulle stesse idee è Baroni. All’improvviso, l’ultima moda italiana in fatto di allenatori.

È un crescendo, una goduria, un volo da Icaro senza scottarsi al sole. Il tris calato all’Ajax a domicilio, giovedì scorso, è stata forse la più netta prova di forza sfoggiata da Pedro e compagni: giocando a mille, in un campo – la Johan Cruijff ArenA – dove il gioco è sempre stato al centro di tutto. C’è poi la suggestione di un prestigioso traguardo: era dal 1997/98, la prima annata dell’era-Eriksson, che la Lazio non vinceva cinque delle prime sei gare stagionali in Coppa Uefa-Europa League.

Questo gruppo sta ritoccando ogni asticella. Era partito un po’ in sordina, si è acceso con sette successi di fila. C’è chi ne faceva una questione di propizio stato di forma: l’asse che va da Tavares a Castellanos, passando per Zaccagni, gira che è una meraviglia. A un certo punto però il portoghese si infortuna, arriva la prima gara europea senza reti, quindi un pesante ko a Parma. È il momento in cui lo slancio fisico ed emotivo – l’inerzia, la sicurezza – potrebbe venire meno. Invece nel giro di una settimana i biancocelesti battono due volte il Napoli e sbancano Amsterdam. Tutti gli occhi non possono che essere su Baroni: prima un doppio schiaffo al contismo, poi una lezione al fariolismo emergente.

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Ecco. Il pilastro più saldo del nuovo idolo di Formello è proprio il non arroccarsi dietro alcun -ismo. «Non porto mai la squadra all’interno di un mio modello di calcio», ha spiegato in più occasioni. «Al contrario, cerco di fare in modo che ciascun ragazzo si esalti nel collettivo in cui gioca: non posso chiedergli di evitare qualcosa che sa fare bene soltanto per ragioni tattiche». È un approccio diametralmente opposto a quello del suo predecessore, tralasciando la parentesi Tudor, che per amor di modulo aveva a tratti sacrificato il suo fantasista più puro: Sarri è un tipo da prendere o lasciare, secondo posto più dimissioni. Il paradosso è che la Lazio di oggi non conta più su fuoriclasse designati come Luis Alberto. Eppure per Baroni la realizzazione dell’io calcistico è funzionale a quella del noi. «Non servono pochi, non bastano tanti, ci vogliono tutti», ha postato su Instagram dopo il colpaccio al Maradona – chiudendo uno strano cerchio personale: da difensore segnò il gol del secondo scudetto napoletano, su assist di Diego Maradona, proprio contro la Lazio.

È prematuro proiettare l’uomo verso i primi trofei da allenatore. Ma attorno a lui sta nascendo qualcosa di non comune. «La sua umiltà ha migliorato tantissimi aspetti che l’anno scorso non funzionavano», dichiara Pedro, che pure annovera fior di strateghi nel corso della sua veneranda carriera. L’ex Barça è l’esempio più lampante di ciò che è in grado di emanare Baroni: soltanto pochi mesi fa sembrava un campione sul viale del tramonto, oggi è tornato a spaccare partite e difese. L’ultimo squillo a giro, nella porta dell’Ajax, già l’undicesimo stagionale tra gol e assist. «È un giocatore infinito e un uomo immenso», ricambia i complimenti Baroni. Ha rivitalizzato pure Isaksen, Dia, il Taty Castellanos: tutti giocatori che, Lazio o non Lazio., fino a ieri sembravano smarriti. Ha scatenato il furore agonistico di Nuno Tavares, è paziente coi giovani – da Dele-Bashiru a Noslin – e sta completando la crescita a centrocampo di Rovella e Guendouzi. Riassume il tutto Zaccagni, scontento del passato prossimo e fiero capitano del presente: «Baroni non ha mai sbagliato un discorso, non ha mai sbagliato a preparare una partita. Ci dà serenità, libertà e intensità».

La triade di un calcio diverso. Nell’èra Lotito ci sono state Lazio tignose – Reja, Petkovic, Sarri – e altamente spettacolari – Pioli e Inzaghi, in rampa di lancio verso Milano. Mai però i tifosi avevano avuto modo di stropicciarsi gli occhi dinanzi a una squadra tanto equilibrata: attenta alle due fasi, ordinata nelle retrovie e un piacere a vedersi palla al piede. La nuova Lazio si muove come un corpo unico, corre veloce, ha una mentalità da big – 16 vittorie su 22 gare cominciano a essere più che un indizio – e soprattutto fa sputare sangue dal primo all’ultimo minuto a ciascuno dei suoi interpreti. Per questo, a prescindere dal risultato, all’Olimpico sono tornati a scrosciare gli applausi. E l’adrenalina, quell’alchimia emozionale tra spalti e campo che era venuta a mancare nell’ultimo spicchio di un grande ciclo: motivazione esaurite, un po’ di indolenza, qualità superiore eppure inespressa. Oggi la piazza sta ricevendo indietro tutto quello che era venuto a mancare. Pure di più. Baroni sta abituando a sorprendere, a non accontentarsi mai, a vincere sfoggiando un gioco di grande spessore e aggressività. Fa andare la sua Lazio a mille, senza mai perdere lucidità. Una banda di forsennati razionali.

A questo punto non resta che una riflessione: ce l’eravamo persi noi, Baroni? Oltre Formello, oltre Roma, oltre ogni latitudine del pallone? Ha 61 anni, allena da più di venti. Quasi sempre nelle serie minori. Tra Lecce e Verona ha fatto mezzi miracoli, meritando una chiamata d’alta classifica. Ma da qui in poi il suo lineare percorso parte per la tangente. Schizza per gli stadi di mezza Europa, incantandoli. Di colpo tutti si accorgono di lui. Più fresco di De Zerbi, più glamour di Maresca. L’età non conta. La lunga attesa neppure. Il futuro è puro stimolo: talvolta partire da zero aumenta semplicemente le probabilità di risalire. Fino a farne certezza. È la sua Lazio, la sua inaudita realtà.





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