Per i “mediani” della nostra economia serve maggiore attenzione delle politiche industriali

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“Una vita da mediano” cantava alla fine degli anni Novanta Luciano Ligabue descrivendo, tra l’altro, il ruolo di Gabriele Oriali, indimenticabile centrocampista dell’Italia del campionato mondiale 1982. Il mediano è uno che sta in mezzo, che fatica nel fare la regia del gioco, che deve avere perseveranza e senso del ruolo. Un poco come la categoria delle medie imprese in Italia; le “mediane” della nostra economia, una categoria di attori economici studiata da anni da Mediobanca, Unioncamere e Istituto Tagliacarne con riferimento al settore industriale. 

Si tratta di una pattuglia di circa 4000 imprese a base familiare tra i 50 e i 499 addetti che fa il 16% del nostro fatturato industriale e ha dimostrato negli anni risultati superiori a quelli delle piccole, ma anche delle grandi imprese, in termini di fatturato, crescita di addetti e performance competitive, non solo in Italia ma anche rispetto alle medie imprese francesi e tedesche. E questo accade in particolare per la produttività, ossia proprio per l’indicatore considerato critico per il nostro Paese nei confronti internazionali.

Tutto ciò è vero a livello nazionale, ma è in particolare un risultato ancora migliore per le medie imprese del Mezzogiorno, che (contrariamente a quasi tutto il resto) rilevano indicatori economici superiori a quelli delle loro omologhe del resto del Paese per fatturato, occupazione e competitività.

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Si tratta di aziende che sopportano un carico fiscale molto più alto delle grandi imprese ancora maggiore nel Mezzogiorno dove, sostanzialmente per effetto delle addizionali IRAP più elevate delle regioni meridionali, l’incidenza fiscale supera il 31% contro il 28,5% delle medie imprese del Centro Nord. Eppure continuano ad investire e ad assumere. 

Ma allora ci si chiede: come mai? Come mai queste imprese, che traggono la loro linfa dai territori di insediamento, ma sono proiettate sui mercati internazionali, ottengono risultati così positivi addirittura nelle aree più in difficoltà del Paese, dove ci sono elevati livelli di diseconomie esterne che rappresentano un indubbio aspetto di penalizzazione?

Si potrebbe dire che il tratto distintivo è che hanno ancora degli imprenditori alla guida che magari hanno iniziato, soprattutto nel Mezzogiorno, come subfornitori di altre imprese locali, di grandi e grandissime dimensioni (almeno quando ce n’erano da noi) e nel tempo però si sono evoluti secondo un percorso di crescita incrementale e di diversificazione del loro business. E sono riusciti a farlo anche in contesti non particolarmente “amici” come diverse regioni del Mezzogiorno, proprio per lo spirito di sviluppo che caratterizza l’imprenditore e non lo ha frenato nell’assumere una dimensione più grande. 

L’avere una base imprenditoriale familiare, spesso però con buoni o discreti livelli di delega gestionale, ha rappresentato un vantaggio competitivo rispetto ad altre situazioni di grandi imprese managerializzate in cui lo spirito imprenditoriale è risultato almeno sopito, se non proprio assente. 

Certo al Sud ci sono ancora poche medie imprese, anche se negli ultimi anni 25 anni sono raddoppiate di numero arrivando a 431, forse in uno dei periodi economici più complicati in cui, per effetto anche della contrazione del mercato interno, si sono dovute di necessità rivolgere a quello internazionale, sebbene il loro livello di internazionalizzazione sia ancora minore, perché esportano il 30% del fatturato contro il 43% del resto del Paese.

Studiate, per merito del progetto pluriennale di Mediobanca e del sistema camerale, ma poco consultate e rappresentate. Le medie imprese sotto molti versi soffrono della stessa difficoltà del mediano nel campo di gioco, ruolo centrale a fronte di una bassa visibilità e capacità di dare voce unitaria alle proprie esigenze, perché spesso non sono integrate nei sistemi di aggregazione associativa o comunque non riescono a rivendicare una propria specificità: è il limite di trovarsi in una situazione di “medietà”.

Siamo in un Paese in cui le politiche industriali sono orientate sostanzialmente sugli estremi dimensionali: le micro e piccole, che spesso incontrano diverse difficoltà, e le grandissime che per la loro dimensione quando sono in crisi (e spesso anche quando non lo sono) hanno una fortissima capacità di fare pressione verso i Governi, nazionali e locali, per ottenere agevolazioni in vario modo e a vario titolo sul costo del lavoro.

Ma se vanno così bene perché preoccuparsene? Perché un pezzo importante delle politiche di filiera e di diversificazione (anche futura) passa proprio per questi soggetti e per il loro ruolo nelle catene di fornitura. E perché in molti casi rappresentano un fattore di upgrading anche per segmenti imprenditoriali di minori dimensioni che attraverso relazioni commerciali e produttive con queste aziende possono trovare motivazioni di crescita anche dal punto di vista manageriale.

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Queste imprese al Nord come al Sud non chiedono tanto incentivi finanziari per investimenti e costo del lavoro, avendo tra l’altro una buona capacità di autofinanziamento testimoniata dagli elevati margini aziendali, ma soprattutto politiche “reali” per lo sviluppo delle competenze e per superare le criticità nel reperimento di adeguate risorse umane che per la metà (e al Sud più che al Nord: 53%) hanno difficoltà a trovare con adeguati profili professionali, e anche a trattenere presso l’azienda.

Considerato il loro ruolo in generale, e soprattutto nei sistemi locali a minore livello di sviluppo, serve allora una politica di ascolto e di valorizzazione, anche sui singoli territori del Paese, per evitare che i mediani della nostra economia possano affievolire la loro carica espansiva e motivazionale o … essere tentati di vendere la loro “squadra aziendale” a compratori esteri, come sta già accadendo in modo sempre più diffuso nel nostro calcio.

 



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