Con la vittoria di Trump in America, l’Europa è sempre più ai minimi termini

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«La renaissance», il rinascimento! Più che una notizia è un auspicio eppure titolava così Le Figaro l’8 dicembre quando al cospetto della ritrovata Notre-Dame c’erano i potenti di mezzo mondo. Ma è un altro mondo rispetto a cinque anni fa quando la cattedrale dei francesi andò a fuoco. È un mondo con il fiato sospeso che aspetta, tra una ventina di giorni, che Donald Trump faccia, per la seconda volta, il suo ingresso alla Casa Bianca. A Parigi c’erano tutti i simboli e i sintomi di questo cambiamento e gli echi di un’instabilità crescente, deflagrata poi con la cacciata del tiranno Bashar al-Assad da Damasco. Comandano adesso i «talebuoni» di Abu Muhammad al-Jawlani, ma viene da chiedersi: è vera svolta? L’Europa non lo sa e mentre Israele presidia il Golan e mette le mani e i tank avanti Kaja Kallas, subentrata a Josep Borrell nel ruolo di Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, sta dalla parte dell’ovvio: «La fine della dittatura è uno sviluppo positivo che mostra anche la debolezza dei sostenitori di Assad: Iran e Russia». Nessuno deve averla avvertita che sull’ambasciata russa di Damasco sventola con soddisfazione del Cremlino la bandiera dei «ribelli» anche se Vladimir Putin ha offerto asilo politico ad Assad, nel quartiere moscovita dei tiranni. Come al solito sullo scacchiere della politica internazionale l’Europa è non pervenuta.

Le ragioni? Non ha suoi strumenti di pressione e soprattutto è divisa. Chi sta al confine con Putin dopo quasi tre anni di inutile e sanguinoso conflitto in Ucraina deve fare i conti con la crescente insofferenza dei cittadini: polacchi, rumeni, ungheresi sono stanchi di guerra e di profughi. Chi sta affacciato al Mediterraneo guarda con preoccupazione verso il Medio Oriente e Borrell, che ha sparato contro Israele, non ha fatto un buon servizio. Chi a Bruxelles seguita con la retorica dei migranti non tiene conto che nove Paesi hanno sospeso Schengen e che appena la crisi siriana si è manifestata il primo provvedimento è stato chiudere le frontiere. L’antico adagio di Angela Merkel, ciò che va bene per la Germania va bene per l’Europa, quando le stelle sulla bandiera sono diventate 27 non funziona più. È una sorta di contrappasso: più l’Unione si allarga più la sua coesione si riduce ai minimi termini. Lo si è capito proprio sul sagrato di Notre-Dame. C’era un Emmanuel Macron che aveva immaginato l’appuntamento come celebrazione della propria grandeur invece è alle prese con una crisi politica ed economica che non ha precedenti nella storia della quinta Repubblica. Ha organizzato una photo opportunity con Trump e Volodymyr Zelensky per tentare d’intestarsi almeno un abbozzo di colloquio di pace. Non c’era Olaf Scholz, che ha in Germania una crisi economica senza precedenti ed è orfano di governo e consenso elettorale. Non c’era Ursula von der Leyen che ha firmato – incontrando l’opposizione fortissima della Francia, dell’Italia e di almeno altri sette Paesi dell’Ue – in tutta fretta il trattato col Mercosur, l’area di libero scambio del Latinoamerica.

Nella rinata cattedrale parigina si è avuta la rappresentazione plastica dell’assenza dell’Europa, giunta ormai al capolinea. Almeno per come ha vissuto e l’abbiamo conosciuta fino a oggi. Donald Trump, che mai ha riconosciuto l’Ue, ha ripreso la strategia degli incontri e degli accordi bilaterali ed ha promosso – come è nelle cose della politica e nei numeri dell’economia – Giorgia Meloni a sua interlocutrice privilegiata. Al di là dei toni entusiastici che ha usato verso la nostra presidente del Consiglio (è diventato virale il «She’s great» rivolto a lady Georgia: lei è grande), è evidente che gli Stati Uniti cercano a Roma la principale sponda nel Mediterraneo e in Europa. Le ragioni stanno appunto nei numeri. L’Italia ha oggi il solo governo stabile tra i «grandi» d’Europa. Macron dopo le dimissioni di Michel Barnier non trova un governo, ma ha un deficit/Pil al 6 per cento e un debito pubblico che viaggia verso i 3.200 miliardi in un rapporto che passa di gran lunga il 100 per cento. Un dato su tutti: i fallimenti sfiorano quota 57 mila, con un incremento dell’8 per cento su base annua, e per la prima volta «spread» è diventata per i francesi una parola sgradita. E loro sono sempre più lontani da Bruxelles: con il 27 per cento di euroscettici la Francia è lo Stato meno europeo. In Germania, Scholz deve ricorrere alle urne in febbraio, la maggioranza «a semaforo», che in parte ricalca la fragilissima «maggioranza Ursula» che ha portato la Von der Leyen al secondo mandato a capo della Commissione europea, si è sfaldata sotto i colpi di una crisi economica senza precedenti. Stagnazione nei consumi, recessione, crollo della produzione industriale (-1 per cento il mese scorso, quasi -5 punti su base annua) con la Volkswagen che annuncia la chiusura di un totale di 14 stabilimenti in varie nazioni. Per avere un’idea basta citare una delle tante crisi: è saltata la panetteria tradizionale Mäschle di Laupheim, neppure il pane è più sicuro.

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In un Paese dove le piccole imprese sono poche ci sono stati nei primi sei mesi 2024 ben 11.324 fallimenti, +30 per cento sul 2023. In Spagna – dove i fondamentali economici sono buoni – la debolezza del governo di Pedro Sánchez sta diventando cronica. Carlos Puigdgemont, il leader dei separatisti di Barcellona, da Bruxelles ha annunciato che i suoi hanno presentato una mozione di sfiducia e non voteranno il bilancio 2025. Questa è l’Europa degli Stati più forti con i membri dell’ex Est del continente che cercano una loro via e dove aumentano gli euroscettici: in Polonia il 68 per cento non vuole l’euro, in Romania le spinte per uscire dalla Ue sono sempre più forti e nessuno dei Paesi che non hanno la moneta unica la vuole. È un’Europa inquieta che prova con il Pse (il Pd italiano è in prima fila in questa azione) a eleggere Trump come «nemico» sventolando lo spauracchio dei dazi che in realtà la Germania fa pagare da anni alle altre nazioni europee. Il meccanismo? Semplice: tenere le altre economie inchiodate con il patto di stabilità e la retorica del rigore e realizzare enormi surplus commerciali basandosi su una ricetta economica ormai desueta: energia a basso costo dalla Russia, export forsennato e abbattimento dei costi di produzione spostando le fabbriche in Cina. È la formula di un drammatico flop realizzato. È un’Europa ancorata all’ideologia green – la vicepresidente della Commissione la spagnola Teresa Ribera Rodríguez appare come la fotocopia del suo predecessore Frans Timmermans – che Von der Leyen tiene in piedi per cercare di non consegnarsi ai conservatori. Ma la crisi dell’auto, la dipendenza energetica rendono impossibile proseguire su quella strada. Ha ragione da vendere Claudio Descalzi, ad di Eni, quando dice: ci vantiamo di avere ridotto le emissioni, ma è successo solo perché abbiamo portato fuori dall’Europa le produzioni. Eni insiste su biocarburanti e nucleare, perché è chiaro che a Bruxelles non sanno far di conto. Ma diranno che è colpa dell’«America First» di Trump. La verità è che l’Ue ha fatto troppi errori. Christine Lagarde, la numero uno della Banca centrale, si limita a limare il costo del denaro di uno 0,25 per cento, mossa in pratica ininfluente. Sa che l’economia europea arranca (crescita del Pil pari allo 0,7 per cento nel 2024, all’1,1 nel 2025, all’1,4 nel 2026 e all’1,3 per cento nel 2027) e si sviluppa solo di un terzo rispetto a quella americana, ma non ha deciso se abbassare in modo più robusto i tassi a fronte di un’inflazione per ora contenuta o se obbedire alla Isabel Schnabel che, per conto della Bundesbank, continua a insistere con la stretta monetaria.

Tutto questo mentre all’orizzonte si staglia il possibile scontro tra America e Cina. Xi Jinping ha bisogno come il pane di vendere i prodotti del Dragone all’estero: la Repubblica popolare ha una domanda interna debolissima – pesano il debito delle famiglie, la bolla immobiliare e i disastrosi bilanci delle amministrazioni locali: su quasi 52 mila miliardi di dollari di debito quello delle amministrazioni locali è di 28 mila miliardi di dollari – e un surplus produttivo enorme per questo in sede di Wto (nell’Organizzazione mondiale del commercio è entrata nel 2001) continua a promuovere azioni contro l’Occidente per evitare i dazi. Sarà proprio in sede di Wto che Stati Uniti e Cina regoleranno i conti e lì l’Europa rischia di lasciarci le penne. Ursula von der Leyen lo sa e per questo sbandiera l’accordo col Mercosur, ma è l’ennesima foglia di fico. Tra il 2019 e oggi la Germania ha perso oltre il 9 per cento della produzione industriale, la Francia il 5 e l’Italia il 3,5: costo dell’energia e aggressività cinese i primi fattori di crisi. In dieci anni l’Europa ha lasciato sul campo un terzo della sua base produttiva e negli ultimi cinque anni ha polverizzato 900 mila posti di lavoro. Così si comincia a pensare che il rapporto di Mario Draghi che chiede investimenti per 800 miliardi di euro l’anno forse è l’unica via d’uscita. Joachim Nagel, il capo di Bundesbank, ha riconosciuto con il quotidiano Financial Times che «sarebbe intelligente» rivedere la norma costituzionale tedesca che impedisce di fare debito. Ma lo ha detto pensando al suo Paese che ha un’economia «con prospettive complicate e deboli». Si tratta di capire se a livello di Ue la Germania è disposta a rinunciare a un patto di stabilità che oggi appare folle. La Lagarde, in un inusitato sussulto di autonomia, ha provato a dire che «forse serve un po’ di debito comune per ripartire». Ma limitatamente, perché Berlino di perdere il controllo dell’Ue, anche se oggi ai minimi termini, non ne ha alcuna voglia. E poi c’è sempre Donald Trump su cui scaricare le responsabilità di quest’Europa arrivata all’ultima chiamata.

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