I mutamenti della politica (post) jugoslava verso la Palestina / Balcani / aree / Home

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Busto di Tito a Belgrado, Serbia © BalkansCat/Shutterstock

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Inizialmente vicina a Israele, col tempo la Jugoslavia ha iniziato a sostenere la lotta di liberazione palestinese. Gli stati post-jugoslavi hanno poi abbandonato i principi del Movimento dei non allineati, assumendo atteggiamenti divergenti verso la questione palestinese

Oltre un anno fa iniziava l’occupazione israeliana di Gaza, in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Da allora la maggior parte dei paesi ex jugoslavi ha espresso solidarietà a Israele, allineandosi alla posizione dell’Unione europea e degli Stati Uniti.

L’ex Jugoslavia però non aveva sempre sostenuto Israele. Ad un certo punto Belgrado aveva interrotto relazioni diplomatiche con Tel Aviv, offrendo un sostegno concreto alla lotta di liberazione palestinese. Fu un periodo caratterizzato dall’ascesa del Movimento dei non allineati, una rotta che nessuno dei paesi post jugoslavi sembra aver mantenuto nelle proprie relazioni con il Medio Oriente.

Jugoslavia-Palestina, breve panoramica storica

Le relazioni tra la Repubblica socialista federale di Jugoslavia (SFRJ) e la Palestina hanno attraversato diverse fasi. “Nell’immediato [secondo] dopoguerra, la Jugoslavia era strettamente allineata alla posizione dell’Urss, seguendo la strategia sovietica per cacciare le vecchie potenze coloniali dalla regione”, spiega la storica Mateja Režek del Centro di Ricerche scientifiche Capodistria.

“A quel tempo – prosegue Režek – la Jugoslavia aveva attivamente sostenuto l’immigrazione irregolare degli ebrei europei verso la Palestina, facilitando anche il trasferimento illegale di armi all’esercito israeliano durante il conflitto arabo-israeliano del 1948”. Il 14 maggio 1948 David Ben Gurion, proclamò ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele, diventando il primo premier del nuovo stato. La Jugoslavia fu tra i primi paesi a riconoscerlo.

Paul Stubbs, sociologo britannico, da anni residente a Zagabria, autore del libro Socialist Yugoslavia and the Non-Aligned Movement: social, cultural, political and economic imaginaries, individua tre fasi nelle relazioni tra Jugoslavia e Palestina dopo la proclamazione dello Stato d’Israele: la prima fase tra il 1948 e il 1953, la seconda tra il 1953 e il 1967 e la terza dal 1967 in poi.

Nel primo periodo (1948-1953), come spiega Stubbs, la Jugoslavia aveva fornito “un certo sostegno alla creazione dello Stato d’Israele nel contesto dell’Olocausto”. In Jugoslavia il nuovo stato era percepito “se non come un esperimento socialista, almeno come un esperimento sociale” e i cittadini jugoslavi erano “perlopiù ignari delle lotte delle popolazioni non ebraiche”.

La prima svolta avvenne verso la metà degli anni ’50. “Questo cambiamento fu determinato da diversi fattori: l’amicizia, sempre più stretta, tra Tito e il presidente egiziano Nasser, l’adozione della dottrina della coesistenza pacifica attiva e il principio di non allineamento che divenne il fulcro della politica estera jugoslava”, spiega Mateja Režek.

“Durante questo periodo – precisa la storica – la Jugoslavia si avvicinò sempre più ai paesi arabi, lasciando meno spazio alla cooperazione con Israele”.

Un cambiamento che però non segnò un punto di rottura. Se da un lato la Jugoslavia, come sottolinea Paul Stubbs, decise di prendere “una posizione anti-israeliana più risoluta durante la cosiddetta crisi di Suez del 1956”, dall’altro “continuò a intrattenere rapporti commerciali con Israele, di tanto in tanto valutando la possibilità di assumere il ruolo di mediatore, relativamente distaccato, in Medio Oriente”.

Dal 1967 al 1990

Il 1967 fu un anno spartiacque. Quando la Guerra dei sei giorni travolse il Medio Oriente e Israele iniziò a espandere il proprio territorio, occupando l’intera penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan, la Jugoslavia – spiega Stubbs – reagì “troncando le relazioni diplomatiche con Israele e offrendo un sostegno concreto alla lotta di liberazione palestinese”.

La SFRJ e Israele non interruppero però tutti i rapporti. Come sottolinea Mateja Režek, “la cooperazione economica, seppur limitata, proseguì, come anche gli scambi tra servizi segreti [dei due paesi]. I contatti segreti tra Jugoslavia e Israele, di cui erano a conoscenza i vertici politici di entrambi i paesi, furono intrattenuti per tutta la durata della Jugoslavia socialista, con poche brevi interruzioni”.

Quanto al sostegno alla causa palestinese, la Jugoslavia si dimostrò disposta ad offrire aiuti umanitari, borse di studio per i giovani palestinesi e, ovviamente, un supporto politico, rimanendo però molto cauta nel rispondere alle richieste di aiuti militari.

“A differenza del decennio precedente – spiega Stubbs – quando [la Jugoslavia] sostenne la lotta di liberazione algerina senza preoccuparsi più di tanto del modo in cui la Francia avrebbe percepito tale sostegno, gli jugoslavi presero una posizione più contraddittoria, o perlomeno più cauta sulla questione palestinese: se da un lato la Jugoslavia continuò a fornire l’assistenza medica e aprire centri riabilitativi per i palestinesi sul proprio territorio, dall’altro emerse una certa riluttanza ad addestrare combattenti palestinesi sul suolo jugoslavo”.

Nel 1971, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) aprì il suo primo ufficio di rappresentanza in Europa, con sede a Belgrado. Era un “ufficio informazioni” e la Jugoslavia, come afferma Stubbs, “rifiutò di promuoverlo al rango di ambasciata”. Yasser Arafat, presidente dell’OLP dal 1969 al 2004, visitò Belgrado nel 1972. “In seguito Arafat si espresse in modo molto chiaro sul ruolo fondamentale svolto nel 1973-74 dagli jugoslavi nel convincere i sovietici a offrire un sostegno più concreto all’OLP”, precisa il sociologo.

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Negli anni ‘80, tra tutti i movimenti di liberazione appoggiati, la Jugoslavia indirizzò il sostegno più significativo all’OLP, un sostegno che però gradualmente diminuì.

“La crisi economica e un cambio di priorità della politica estera jugoslava contribuirono a questo ridimensionamento, una dinamica che alla fine degli anni ’80 si rispecchiò in un rinnovato avvicinamento ad Israele”, spiega Mateja Režek.

A partire dalla metà degli anni ‘80 furono stabiliti anche contatti diretti tra il Mossad e i servizi segreti jugoslavi. “La Jugoslavia riconobbe lo Stato di Palestina nel 1988, però nel paese continuarono a moltiplicarsi le richieste di ristabilire le relazioni diplomatiche con Israele. Nel 1990, la leadership jugoslava annunciò un graduale ripristino dei rapporti bilaterali, ma il paese si dissolse prima di raggiungere questo traguardo”, conclude la storica.

Chi è custode della visione jugoslava?

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, nessuna delle sue ex repubbliche è rimasta dedita alla politica del non allineamento e ad un sostegno inequivocabile alla lotta palestinese. Va ricordato che attualmente nessuno dei paesi ex jugoslavi è membro del Movimento dei non allineati, anche se la Serbia, la Bosnia Erzegovina, il Montenegro e la Croazia hanno lo status di osservatore.

Negli ultimi anni, i sei paesi dei Balcani occidentali hanno espresso posizioni diplomatiche divergenti sulla questione palestinese. L’esempio più curioso è probabilmente quello della Serbia. Bilanciando maldestramente tra le due parti, Belgrado ha cercato di allinearsi alla posizione dell’UE e degli Stati Uniti sul conflitto israelo-palestinese e, al contempo, di mantenere i rapporti con i paesi del Medio Oriente.

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Serbia: una svolta diplomatica?

Storicamente alleata di Israele, la Serbia ha sfruttato questa vicinanza per raggiungere obiettivi geopolitici più ampi, compreso il sostegno di Washington. Il 2020 è stato un anno cruciale in questo senso: Belgrado e Pristina hanno siglato un accordo, mediato dagli Stati Uniti, che ha coinvolto anche Israele. I due paesi balcanici hanno concordato di rafforzare i legami con Israele, anche attraverso lo spostamento dell’ambasciata serba da Tel Aviv a Gerusalemme e un riconoscimento reciproco tra Kosovo e Israele.

A trarre vantaggio da questo accordo è stato sicuramente Donald Trump nel suo tentativo di conquistare punti politici tra l’elettorato statunitense nella speranza di essere rieletto presidente. Allo stesso tempo, l’accordo ha permesso a Israele di espandere la sua influenza nei Balcani e persino di riproporsi come mediatore tra Belgrado e Pristina.

Con l’approvazione di Trump, Israele ha assunto il ruolo di attore chiave nel processo di normalizzazione delle relazioni commerciali tra Pristina e Belgrado, ma anche di potenziale mediatore di pace in altri conflitti. Uno stratagemma diplomatico che il governo israeliano aveva in mente da anni, avendo capito di poter trovare nuovi e preziosi alleati tra i paesi dei Balcani occidentali.

Alcuni analisti, come Vuk Vuksanović e Benny Morris, ritengono che l’interesse di Israele per i Balcani sia legato al cambiamento della dottrina della sicurezza israeliana dopo lo scontro diplomatico con la Turchia nel 2011 a causa dell’incidente della Mavi Marmara.

In un periodo di relazioni congelate con un paese alleato di lunga data, come la Turchia, Israele ha deciso di costruire nuove alleanze. Quale modo migliore se non rafforzando i rapporti con i paesi che, oltre ad essere in rotta di collisione con la Turchia, sono allineati alla posizione israeliana su Hamas. Anche la Grecia e Cipro soddisfano entrambi i criteri.

Questo approccio era in linea con obiettivi geopolitici più ampi di Israele, compreso il tentativo di contrastare l’influenza iraniana e gestire le tensioni con la Turchia. La strategia israeliana era finalizzata a scongiurare il raggiungimento di un accordo all’interno dell’UE sulla questione palestinese.

Israele ha guardato ai Balcani occidentali in cerca di nuovi amici in vista del voto delle Nazioni Unite sul riconoscimento di uno stato palestinese. Nel giugno 2011, Avigdor Liberman si è recato in visita in Albania . È stata la prima volta, dopo diciassette anni, che un ministro degli Esteri israeliano ha visitato il paese balcanico come parte della campagna diplomatica di Israele contro la causa palestinese.

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Nel contesto delle iniziative delle Nazioni Unite, la posizione della Serbia riflette la sua politica estera ambigua. Belgrado ha spesso votato su risoluzioni riguardanti la Palestina lasciandosi guidare da motivazioni strategiche e cercando di mantenere buoni rapporti sia con Israele che con i paesi arabi.

Nel 2012, la Serbia è stata l’unico paese dei Balcani occidentali a esprimersi a favore della richiesta della Palestina di ottenere lo status di osservatore non membro all’ONU. Questo è uno dei pochi capitoli della storia moderna in cui Belgrado ha seguito le orme del leader jugoslavo Josip Broz Tito, uno strenuo sostenitore del presidente palestinese Yasser Arafat e dell’OLP.

Tuttavia, il recente voto sulla risoluzione di Gaza ha evidenziato un chiaro cambiamento nella politica estera serba. Il 26 ottobre 2023, nel bel mezzo del conflitto tra Israele e Hamas, la Serbia ha deciso di astenersi dal voto sulla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite incentrata sulla crisi umanitaria a Gaza. L’ONU ha chiesto una “tregua umanitaria immediata, duratura e costante” e un accesso indisturbato agli aiuti essenziali per i civili a Gaza, tra cui cibo, acqua e forniture mediche.

La risoluzione ha posto l’enfasi sul rispetto del diritto umanitario internazionale, la protezione dei civili e la prevenzione dei trasferimenti forzati di popolazione. Ha inoltre sollecitato il rilascio di tutti gli ostaggi detenuti dalle parti coinvolte nel conflitto. Tra i paesi dei Balcani occidentali, la Bosnia Erzegovina e il Montenegro hanno votato a favore della risoluzione, mentre ad astenersi, oltre alla Serbia, sono state l’Albania e la Macedonia del Nord.

La risoluzione di Gaza, proposta dalla Giordania, ha ricevuto un ampio sostegno, con 120 voti a favore, 14 contrari e 45 astenuti. Tuttavia, il testo non affronta direttamente gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, fatto che ha portato alcuni paesi, come gli Stati Uniti, a criticare la risoluzione per non aver condannato esplicitamente gli atti di terrorismo.

Gli emendamenti per includere tali condanne sono stati respinti, riflettendo le profonde divisioni tra gli stati membri delle Nazioni Unite su come bilanciare la necessità di affrontare la crisi umanitaria con questioni politiche e di sicurezza più ampie legate al conflitto in corso. La presa di posizione della Serbia è l’ennesima prova della sua strategia di equilibrismo tra Oriente e Occidente.

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito della Collaborative and Investigative Journalism Initiative (CIJI   ), un progetto cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina progetto

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