Oltre l’informazione: ripensarci con Wittgenstein

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Ludwig Wittgenstein mi è sempre stato simpatico per il suo carattere impossibile. Sempre sopra le righe, gran seduttore di menti brillanti, faceva oltremodo il serio e poi ci ripensava. Il suo buffo lavoro giovanile dal titolo bombastico, Tractatus logicus-philosophicus, da più di un secolo è avvolto in un’aura mistica come se celasse chissà quale sapienza ermetica; eppure egli stesso l’ha rinnegato nella sua età più matura e interessante.

Il resistente mito del Tractatus testimonia il perdurare della fede nella logica come chiave universale. Fede che ai giorni nostri più ingegnosi diventa “tutto è informazione”. E il modo in cui Ludwig cambiò idea, redimendosi dalla sua acerba visione del mondo, può aiutare anche noi a capire cosa non funziona nella “quarta rivoluzione”. 

In principio Ludwig sentenzia con sicurezza che «il mondo è la totalità dei fatti» i quali sono «sussistere di stati di cose» che sono «indipendenti l’uno dall’altro» e sono «collegamenti di oggetti» i quali «contengono la possibilità di tutti gli stati di cose».

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Siamo in un dizionario animato di parole-cose, un mondo interamente descrivibile da proposizioni che dicono come stanno le cose e possono essere solo vere o false. Siamo nel gioco degli scacchi: una mappa, dei pezzi-simboli, delle regole; gli stati di cose sono le posizioni dei pezzi sulla scacchiera.

È un mondo discreto, nel senso di “discontinuo”: è fatto di entità separate, di stati distinti. Come nelle mosse degli scacchi, ad esempio quando l’alfiere va in diagonale da un angolo all’altro, nella transizione di stato esistono solo lo stato iniziale S1 e lo stato finale S2. In mezzo non c’è nulla: nessun percorso, nessun passaggio intermedio, nessuna sfumatura. 

Penso alla stanza in cui lei mi attende. La porta può essere in due stati, dice la logica di Ludwig, chiusa oppure aperta, nient’altro. Ma se quella porta chiusa è sorda a ogni colpo? E se poi la maniglia ruota lentamente? Se la porta si socchiude – un movimento quasi impercettibile, dolcezza o terrore – e non è ancora davvero aperta, ma nemmeno più chiusa? Ora posso avvertire un odore familiare, un discorso sussurrato, una musica. Se la spingo leggermente, fino a poter spiare l’angolo dove… Ecco, non è ancora del tutto aperta, ma che differenza fa per me. Potrebbe essere più aperta così di un portone di reggia spalancato. E ancora c’è tanta strada da fare.

Infiniti sono gli stati di una porta che possono essere uno stato di cose tanto rilevante da produrre altri stati di cose e poi altri ancora. E questa continuità troppo sottile persino per i sentimenti, che non si può suddividere a priori, che continuamente sfugge alla lingua e costringe a ricrearla, vale per una porta come per qualunque altra cosa e persona. Così è il mondo in cui viviamo.

L’informazione di Shannon nasce invece per descrivere il mondo a blocchi di Ludwig. Caso seminale: un sistema di trasmissione di messaggi (intelligence, poi information). Ogni messaggio X, come insieme di parole scelte da un dato dizionario, è un fatto, uno stato di cose della sorgente. È come assegnare un valore a una variabile. Solo in simili condizioni ultra-semplificate si possono elencare gli stati di cose in cui il sistema si può trovare, e stimare la probabilità che si trovi in ogni stato. Così viene fuori la misura dell’entropia di sorgente e infine dell’informazione di un messaggio, codificabile in bit.

Dunque che vuol dire codificare come informazione le persone, e qualunque faccenda che le riguardi? Vuol dire prima di tutto vedere il mondo in cui viviamo come un insieme di stati distinti S1, S2, … Sn, e anche le persone come insiemi di stati distinti, al di fuori dei quali non c’è nulla.

È evidente che una descrizione così rozza cancella le porzioni dell’immagine per noi essenziali: i percorsi, i passaggi intermedi, le sfumature. Lo stesso deficit che promuove la logica a mondo, dis-integra i rapporti con la realtà umana.

Per fortuna, negli anni successivi Ludwig superò il suo deficit e si guardò intorno con più attenzione. Si accorse che gli scacchi erano un misero gingillo rispetto ai lussureggianti usi del linguaggio che fanno le persone reali, innumerevoli, variegati, irriducibili a uno schema. Laddove prima parlava di “calcolo” delle parole, cominciò a parlare di “giochi”.

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«Ma riflettiamo anche sul significato della parola “oh!” Se ci chiedessero cos’è, diremmo probabilmente che è un sospiro; diciamo, ad esempio, “oh, è già ricominciato a piovere” e cose del genere. Avremmo descritto, così, l’uso della parola. Ma che cosa corrisponde, in questo caso, al calcolo, ai complicati giochi che facciamo con le altre parole? Nell’uso di parole come “oh”, “urrà” o “hm” non c’è nulla di simile.»

E già: basta un “oh”, ma anche solo un sospiro, basta una porta socchiusa per riconoscere dove finisce il calcolabile e inizia il mare dell’incalcolabile in cui sguazziamo. La rivoluzione dell’informazione nasce dal non vedere questo. Nasce da una cecità, in origine selettiva, poi sconfinata a sistema. Fra i suoi pregi non c’è la virtù di vedere meglio noi stessi, al contrario. Il futuro che predice non è il nostro.



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