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“Legge di bilancio che scrivi, anticipo pensionistico che trovi”: potrebbe essere questo il motto che riassume, in poche parole, gli interventi in campo previdenziale degli ultimi dodici anni. Vale a dire, dall’entrata in vigore dell’(evidentemente) ancora poco digerita riforma Fornero delle pensioni. Ad oggi, essa rappresenta l’ultima vera riforma organica del settore, avendo, in modo repentino ma coerente, innalzato e uniformato le età di pensionamento per uomini e donne dei settori pubblico e privato, esteso il metodo di calcolo contributivo, eliminato le pensioni di anzianità ma introdotto, al contempo, quelle anticipate. Da quel momento, il legislatore ha cominciato a utilizzare la più importante legge italiana, quella di bilancio, per correzioni ed esperimenti che andavano – e vanno – tutti in direzione opposta a quella tracciata dalla riforma Fornero: anticipare, cioè, il momento del pensionamento. Sia chiaro: di fronte al necessario, ma per certi versi brutale, aumento dell’età di accesso alla pensione, non stupisce che il legislatore abbia provato a proporre un po’ di sollievo ai lavoratori più anziani. Tuttavia, deve essere altrettanto chiaro che ognuno di questi “sollievi” pesa sulle casse dell’ente previdenziale in maniera rilevante, se non addirittura critica. Come riconosce del resto anche il Ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti: in un contesto demografico come quello italiano, anche l’attuale metodo di calcolo contributivo rischia di non stare più in piedi.
Ultimo arrivato, se verrà confermato nei prossimi giorni, è l’anticipo a 64 anni. Non una vera novità, a essere sinceri: si tratta di una modifica, in senso estensivo, della già citata pensione anticipata introdotta dalla riforma Fornero. Ma i cui dettagli, è ovvio, sono tutti da chiarire e da comprendere. Ciò che più preme sottolineare è che questi interventi non solo rischiano di aumentare la spesa pensionistica, ma anche di essere selettivi e quindi iniqui. È allora utile ripercorrere, almeno a grandi linee, quest’ultimo periodo di interventi. Una categoria a parte è occupata dai decreti di salvaguardia per i cosiddetti lavoratori esodati, approvati tra il 2012 e il 2016: in questo caso, si trattò di interventi necessari che permisero di regolarizzare un brutto pasticcio creato, con responsabilità diverse, da Ministero del Lavoro e Inps. Tra quelli discrezionali, invece, il primo anticipo della lista fu l’Ape (Anticipo finanziario a garanzia pensionistica). Sperimentato per tre anni (2017-2019), permetteva di andare in pensione prima dei tempi previsti dalla riforma Fornero, di fatto indebitandosi con istituti finanziari. Per i soli lavori usuranti, il costo dell’Ape (in questo caso denominato Ape sociale e tuttora in vigore) sarebbe invece stato a carico dello Stato. Nel frattempo, tornò in auge una modalità di anticipo introdotta già nel 2004 ma poco sfruttata, vale a dire “Opzione donna”: in questo caso, le sole lavoratrici potevano accedervi, ma accettando di convertire l’intera propria pensione in contributiva. È chiaro che, prima della riforma Fornero, tale conversione non sarebbe stata conveniente: con una relativamente bassa età anagrafica, infatti, si poteva accedere a una ben più generosa pensione retributiva. All’aumento dell’obbligo di anni di lavoro, al contrario, “Opzione donna” si fece molto più interessante. In fin dei conti, si trattava di una buona proposta: così buona, in effetti, che forse la si sarebbe potuta estendere a tutti i lavoratori. Al contrario, per ragioni oscure, si decise di rendere “Opzione donna” sempre più difficile da ottenere, al punto che oggi essa denota più una politica assistenziale che davvero previdenziale.
E poi arrivarono le quote: “100” tra il 2019 e il 2021, “102” nel 2022, “103” tra il 2023 e il 2024. L’idea delle quote venne per la prima volta discussa nel 2004. Allora, però, davvero di quota si trattava: il diritto alla pensione si sarebbe ottenuto quando la somma di età anagrafica e contributiva avesse raggiunto un certo numero (la quota, appunto), secondo tante combinazioni possibili. Nella nuova formulazione, non c’era (e c’è) alcuna possibilità di composizione: “Quota 100” spettava a chi avesse avuto, quando in vigore, 62 anni di età e 38 di contributi, “Quota 102” richiedeva invece 64 anni di età e sempre 38 di contributi mentre “Quota 103” ne richiede 62 di età e 41 di contributi. In pratica, quindi, sono provvedimenti applicabili solo a lavoratori nati in determinati anni (nei vari casi, tra il 1957 e il 1961) e che, in aggiunta, hanno avuto la fortuna di avere proprio quell’anzianità contributiva richiesta dalla norma. Con buona e definitiva pace dell’uguaglianza di trattamento tra lavoratori. Varrebbe allora la pena che, se davvero il legislatore volesse mettere mano al sistema pensionistico, dedichi all’argomento una riflessione ben più ampia di quella disponibile nelle poche e agitate ore che compongono gli ultimi giorni utili per l’approvazione della Legge di bilancio. Ne va della tutela del nostro sistema previdenziale, dell’uguaglianza tra cittadini e, non da ultimo, del rispetto delle generazioni future.
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