di Andrea Cegna da Città del Messico
L’emozione, la gioia, le lacrime che mescolano rabbia, frustrazione e vittoria. Quasi 26 anni dopo il 18 gennaio 1999, il giorno in cui Antonio Gonzalez Mendez, militante civile dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, veniva fatto sparire Zonia, la moglie, vede un raggio di sole che apre le porte ad un verità che diventa un momento storico in Messico. Il 12 dicembre 2024 la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha riconosciuto il Messico colpevole. Per il massimo organo continentale per la difesa dei diritti umani quindi per il massimo organo continentale per la difesa dei Diritti Umani lo Stato messicano è responsabile della sparizione forzata di González Méndez, della violazione dei diritti al riconoscimento come persona davanti alla legge, alla vita, all’integrità personale, alla libertà di associazione, della violazione dei diritti alle garanzie giudiziarie e alla protezione giudiziaria, a danno di González Méndez e dei suoi familiari. Lo stato avrebbe quindi violato il diritto a conoscere la verità, l’integrità personale e la protezione della famiglia, nonché i diritti dei bambini. Non solo, la corte ha riconosciuto, come si legge nel comunicato stampa che “a Corte ha rilevato che la sparizione forzata di González Méndez è avvenuta nell’ambito del contesto di violenza nello Stato del Chiapas, che si è intensificato a partire dal 1994, con la rivolta dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN).
In questo contesto, i gruppi paramilitari sono emersi come risultato della politica statale di controinsurrezione, il Piano di Campagna del Chiapas del 1994. Tali gruppi operavano con l’appoggio, la tolleranza e l’acquiescenza dello Stato, con l’obiettivo di neutralizzare forze o organizzazioni considerate nemiche, come l’EZLN”. La ricostruzione storico/politico della Corte mette un punto definitivo nella responsabilità dello Stato messicano in quel che è accaduto in Chiapas dopo l’inizio della sollevazione Zapatista. La Corte evidenzia come nel 1994 è stato creato il Piano Chiapas che “disponeva l’utilizzo della popolazione civile per contribuire alle attività dell’esercito messicano e che l’esercito era incaricato della creazione, dell’addestramento, del sostegno, del coordinamento e dell’organizzazione di forze di paramilitari, con l’obiettivo di distruggere o neutralizzare l’EZLN.
I gruppi paramilitari erano legati alle autorità locali, statali e federali attraverso l’addestramento militare, il finanziamento, la fornitura di armi, veicoli e uniformi, la facilitazione del trasporto di armi attraverso i posti di blocco militari, la firma di accordi, la supervisione dell’esercito e la detenzione degli oppositori”. Antonio è stato fatto “sparire” dal gruppo paramilitare “Paz y Justicia”, nato nel 1997 come associazione civile e che ha ricevuto dal governo del Chiapas quasi 5milioni di pesos. Tale gruppo è considerato facente parte dei gruppi “creati, armati e tollerati” dallo stato nonché addestrati dall’esercito messicano. La sentenza quindi oltre a responsabilizzare il Messico per non aver svolto adeguate indagini sulla sparizione apre una breccia nel muro della violenza in Chiapas, e nella storia delle sparizione forzate del paese. Il massacro di Acteal, le violenze contro le comunità zapatiste, la violenza oggi in Chiapas che vede un collante tra i vecchi gruppi paramilitari (mai smantellati), soprattuto dopo la liberazione dei pochi loro membri arrestati, e i gruppi del crimine organizzato oggi (se si guarda la geografia dello scontro tra criminali oggi si può vedere che fatto salvo quanto sta accadendo attorno alla frontiera con il Guatemala le altre aree sono sovrapponibili a quelle dell’espansione del paramiltarismo alla fine degli anni ’90), nascono, si muovono e si plasmano dentro a una progetto statale di annichilimento dell’esperienza Zapatista.
Proprio per questo il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomè del Las Casas che ha seguito il caso scrive: “È una giornata storica, senza precedenti in Messico, frutto della determinazione e del coraggio della famiglia di Antonio, in particolare della sua compagna e delle sue figlie: Zonia, Elma e Magdalena. Di fronte a questo crimine di Stato, hanno intrapreso una lotta instancabile per ottenere verità e giustizia, come hanno fatto molte altre donne che oggi affrontano il dolore della sparizione forzata. La loro perseveranza, insieme all’accompagnamento di questo Centro per i diritti umani, è riuscita a portare la loro richiesta di giustizia ai più alti livelli internazionali. Sebbene la sentenza di oggi rappresenti un significativo passo avanti, non è la fine del processo di giustizia avviato dalla famiglia di Antonio. È essenziale che lo Stato messicano, e in particolare le sue forze armate, rispettino pienamente la sentenza della Corte della CIDH, iniziando a chiarire la sorte e il luogo in cui Antonio si trova, in modo da poter avviare un processo giudiziario completo e aprire le porte alla giustizia di transizione nel contesto della contro-insurrezione in Chiapas” e quindi chiude il testo ricordando “la decisione di oggi apre una crepa nel muro di complicità e impunità costruito dai responsabili, attori politici, militari e paramilitari che, governo dopo governo, hanno stretto patti per coprire i loro crimini di Stato”.
Il 12 dicembre in Messico non sarà più solo il giorno della Vergine di Guadalupe ma potrebbe essere il giorno in cui una nuova storia, positiva, sul rispetto dei diritti umani e contro i crimini di lesa umanità si può aprire. Questo grazie alla forza, il coraggio e la perseveranza di una donna indigena Chol e delle sue figlie e dei suoi figli. Davanti al muro di gomma, dettato dalle responsabilità, del Messico hanno con perseveranza portato il caso a livello internazionale. Ci sono voluti 26 anni, e le loro lacrime di gioia e rabbia, sono state la liberazione necessaria dopo aver subito torti a più riprese, a partire dalla sparizione del marito/padre.
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