Negli ultimi giorni, le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno intensificato la loro offensiva contro le forze di resistenza nel campo profughi di Jenin, anima della resistenza palestinese. Il campo, un simbolo di lotta contro l’occupazione israeliana, è diventato teatro di incursioni e repressioni che non hanno nulla a che fare con il benessere del popolo palestinese, ma piuttosto con gli interessi di un’autorità sempre più alienata dalla sua gente.
Le forze dell’ANP, in coordinamento con Israele, hanno preso di mira i membri delle Brigate di Jenin, cercando di estirpare la resistenza armata che cresce sempre più, spinta dalla disperazione di un popolo abbandonato dalla propria leadership. Con cecchini posizionati sui tetti che sparano in modo casuale sui civili, quasi fosse un macabro gioco, la violenza colpisce indiscriminatamente. Tra le vittime si trovano anche civili innocenti, come l’adolescente Rebhi Shalabi, ucciso mentre guidava disarmato la sua moto nel campo profughi della città. La sua morte, avvenuta il 18 dicembre, è stata ripresa dalle telecamere, scatenando un’inevitabile ondata di indignazione. Non solo Shalabi, ma anche un ragazzino di 13 anni e un comandante delle Brigate Jenin, ricercato da Israele, sono stati uccisi durante lo stesso raid.
L’Autorità Nazionale Palestinese ha assunto la piena responsabilità per l’omicidio di Shalabi, ma non sono state prese misure per arrestare gli ufficiali coinvolti o avviare un’inchiesta, aumentando ulteriormente la rabbia nelle strade. Vale la pena precisare che si tratta di episodi che non sono isolati, ma fanno parte di un disegno più ampio volto a rafforzare il controllo dell’ANP sulla Cisgiordania, agendo come strumento di Israele piuttosto che come vero rappresentante dei diritti del popolo palestinese. Nessun tipo di giustificazione dell’operazione è riuscita a convincere e calmare i 24.000 rifugiati palestinesi che vivono nel campo, che da più di un anno sopportano incursioni e raid israeliani sempre più frequenti. Molti vedono questa campagna come un tentativo di eliminare la resistenza palestinese, in linea con il coordinamento della sicurezza tra l’ANP e Israele.
Se la brutalità dell’occupazione israeliana è sempre stata un tema centrale nella resistenza palestinese, la violenza delle forze dell’ANP di questi giorni ha un sapore ancora più amaro, poiché viene perpetrata da un’entità che avrebbe dovuto difendere i diritti e le aspirazioni del popolo palestinese. Questo doppio fronte di oppressione ha spinto molti palestinesi a riflettere sulla vera natura dell’ANP: un ente che, pur dichiarandosi rappresentante del popolo, non ha mai ricevuto un vero mandato popolare. Il suo presidente, Mahmoud Abbas, rimane alla guida di un’Autorità senza legittimità democratica, da quando nel 2006 non sono più state convocate elezioni.
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La realtà politica in Cisgiordania è ormai un paradosso: l’ANP, sotto la leadership di Abbas, ha formalmente rinunciato alla lotta per la libertà e la sovranità palestinese, sacrificando i diritti fondamentali del popolo a favore di compromessi politici che, oltre a permettergli di rimanere al potere, hanno solo rafforzato la posizione d’Israele. Gli accordi di sicurezza tra l’ANP e Israele, così come il coordinamento della sicurezza, sono pratiche consolidate che tradiscono le speranze di milioni di palestinesi che lottano ancora per una Palestina libera e indipendente. Questi accordi, invece di promuovere la giustizia e la sovranità, favoriscono la cooperazione tra l’ANP e Israele, rafforzando il controllo israeliano e l’autorità di un governo palestinese che non risponde alle esigenze del suo popolo. Abbas, legittimato solo da un sistema corrotto e dai fondi internazionali, ha perso il sostegno della maggior parte della popolazione palestinese, che ormai vede la sua presidenza come un ostacolo alla vera indipendenza e autodeterminazione.
Gli attacchi contro Jenin, quindi, non sono solo un tentativo di reprimere la resistenza palestinese, ma un chiaro segnale del ruolo colluso dell’ANP con l’occupazione israeliana. Le forze di sicurezza dell’ANP, infatti, agiscono come braccio armato per garantire la sicurezza di Israele, non quella del popolo palestinese. In questa prospettiva, la resistenza armata non è vista come un atto di ribellione illegale, ma come una reazione naturale contro un regime che ha abbandonato la sua missione storica.
Esattamente come ho avuto modo di ascoltare qualche mese fa sul posto, i membri delle Brigate Jenin respingono con fermezza la descrizione delle loro attività, definita dalle forze di sicurezza come criminali o illegali. Un alto dirigente del battaglione, che ha parlato in anonimato con The New Arab, ha dichiarato: “Le nostre armi non sono destinate al crimine o all’estorsione. Le nostre armi sono per la resistenza, per affrontare l’occupazione israeliana che continua ad assaltare Jenin senza sosta”. Il leader ha accusato le forze di sicurezza palestinesi di voler “indebolire la resistenza” sotto il pretesto di far rispettare la legge e l’ordine. “Chi si oppone all’esercito israeliano quando invade il campo?” ha chiesto. “Non siamo forse noi, il battaglione e le altre fazioni armate?”.
Le Brigate di Jenin, che si oppongono alla repressione dell’ANP, non solo denunciano la brutalità della leadership palestinese, ma si affermano nella popolazione come l’unico vero baluardo contro l’occupazione israeliana. La Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e Hamas hanno già condannato la repressione dell’ANP, accusandola di agire contro il popolo palestinese. La violenza che caratterizza questi conflitti interni è il frutto di anni di fallimenti, sia da parte di Abbas che della comunità internazionale, che ha preferito ignorare la realtà palestinese piuttosto che affrontarla.
L’assalto delle forze di Abbas contro il campo di Jenin è anche un chiaro tentativo di svuotare di significato la resistenza palestinese, un movimento che cresce nonostante gli sforzi per spegnerlo. Jenin è un simbolo di lotta, un luogo che ha resistito alle incursioni israeliane e che oggi continua ad essere il centro di una resistenza popolare che rifiuta ogni tipo di compromesso con l’occupazione. La disperazione cresce, e la fiducia nell’ANP è ormai ai minimi storici.
Un altro aspetto fondamentale di questa situazione è il silenzio dei paesi occidentali e delle istituzioni internazionali di fronte alla repressione che il popolo palestinese sta subendo, non solo da parte di Israele, ma anche dalla sua stessa leadership, che dovrebbe essere il suo difensore. Le forze di sicurezza dell’ANP, armate e finanziate anche da fondi internazionali, sono usate contro i palestinesi stessi, mentre le potenze mondiali continuano a ignorare la natura antidemocratica e illegittima del regime di Abbas.
Quello che vediamo oggi non è altro che l’ennesima manifestazione della crisi di leadership e dell’assenza di un progetto politico chiaro, che rende il popolo palestinese prigioniero della sua stessa autorità. Il futuro della Cisgiordania sembra sempre più segnato dalla violenza e dalla disillusione. La resistenza palestinese, però, non è morta, e nonostante la violenza interna ed esterna, il popolo palestinese continua a lottare per un futuro libero e sovrano. Le strade di Jenin, seppur silenziose oggi, saranno domani ancora un pilastro della lotta per la libertà e la giustizia, che nessun governo illegittimo, né palestinese né israeliano, potrà mai fermare.
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