“Quarta mafia”, parte seconda.
Recensione ad Antonio Laronga, L’ascesa della quarta mafia. Espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana, Zolfo, 2024.
di Andrea Apollonio
Per illustrare un lavoro sulla “quarta mafia” (Antonio Laronga, L’ascesa della quarta mafia. Espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana, Zolfo, 2024) è necessario partire dalla “quarta mafia”: storicamente, essa non è la mafia foggiana, ma la salentina Sacra corona unita.
Correva l’anno 1994 e la Commissione Parlamentare Antimafia riconosceva che la Puglia non era (più) terra di conquista mafiosa (come era stata ritenuta lungo tutti gli anni Ottanta), bensì un’area “tradizionale” di insediamento e di infiltrazione delle mafie. E appare singolare come a questa conclusione si giungesse a contrario, alla chetichella, e con molta circospezione: nella misura in cui, cioè, la relazione del senatore Carlo Smuraglia si interessava di tutte quelle aree regionali considerate aree “non tradizionali” di insediamento mafioso (molte regioni del Nord, la Basilicata, la Sardegna ecc.), dando per scontato – facendone solo un rapido accenno – che la Puglia fosse, assieme a Calabria, Sicilia e Campania, una regione in questo senso “mafiosa”. Non fu istituzionalmente indolore riconoscere che, oltre a cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra (e tutti i loro derivati), vi fosse un’altra compagine e un’altra regione infetta.
La Sacra corona unita diviene così, anche nei documenti parlamentari, in sordina e senza strepiti, la c.d. “quarta mafia”. Un passaggio, del resto, che non poteva tardare ancora: la presa di posizione era ampiamente giustificata dal fatto che il primo maxi-processo alla Scu si era appena concluso (sia in primo che in secondo grado) con pesanti condanne per associazione e con l’esplicito riconoscimento del carattere mafioso della Sacra corona unita, mentre l’instabilità sociale dell’area salentina dovuta ad una criminalità che rispondeva ai parametri tipici dell’art. 416-bis dilagante andava sempre più acclarandosi.
La Sacra corona unita è stata, per così dire, la “prima” “quarta mafia”: a contendersi questa posizione, dopo la progressiva rarefazione della mafia sacrista, radicatasi nel Salento, sarà appunto la mafia foggiana, che può considerarsi la diretta prosecuzione della parabola sacrista nella storia criminale della Puglia.
Ne è ennesima riprova il ben documentato lavoro ricostruttivo del procuratore aggiunto foggiano Antonio Laronga, che in una prima parte si sofferma sui traffici attuali della mafia foggiana, sul know-how di una delle più temibili realtà criminali del Paese, ed in una seconda – in un affascinante percorso a ritroso – snoda la storia e risale alle origini del male, tessendo le singole vicende (quale quella ancora semisconosciuta dell’imprenditore edile Giovanni Panunzio, assassinato dalla mafia foggiana il 6 novembre 1992) e tutti i numeri (quali quelli, del tutto sconosciuti, elaborati dall’Eurispes riguardo all’ “Indice di permeabilità alla criminalità organizzata”) che portano oggi, come scrive Laronga, al «tentativo delle mafie foggiane di assumere un più evoluto profilo organizzativo che sembra ricalcare l’architettura della ‘ndrangheta».
Oltre al notevole valore di impegno civile del magistrato, il dato criminologico più interessante che il libro espone e spiega è appunto questa vicinanza quasi simbiotica con la mafia calabrese: si tratta di una nemesi della storia, perché le mafie foggiane sono state letteralmente forgiate dai clan di camorra negli anni Ottanta.
La Capitanata rappresentava in quegli anni un varco poco presidiato, che ha permesso un facile accesso nella Puglia felix; il primo atto tangibile di penetrazione criminale in Puglia fu l’incontro del “professore” con alcuni esponenti della malavita pugliese. Nel gennaio 1979 Raffaele Cutolo, appena fuggito dal manicomio criminale di Aversa, affiliò alla Camorra alcune decine di malavitosi, scelti tra i più “capaci” e provenienti da ogni parte della Puglia, per costituire una struttura che verrà poi denominata, dallo stesso Cutolo, “Nuova camorra pugliese”.
Cutolo aveva buone ragioni: l’ampia provincia della Capitanata ha sempre stimolato la bramosia della camorra (e in particolare della nuova camorra organizzata) per le sue ricchezze nel primo settore: l’olio, il ciclo del pomodoro e quello del grano, vere eccellenze dell’ampio Tavoliere delle Puglie, negli anni Settanta e Ottanta ingrossavano i profitti delle industrie agroalimentari foggiane e campane. Su queste ultime l’organizzazione cutoliana aveva incentrato il proprio interessamento, imponendo la propria pretesa prevaricatrice e impiantando la propria “industria” del racket.
Quelle ricchezze costituiscono ancora il patrimonio del Tavoliere, tanto che Laronga ricorda come «in tutta la provincia il business dell’agroalimentare rappresenta per la criminalità organizzata un efficace strumento per la sua affermazione del territorio». Oltre quarant’anni sono passati, e non è cambiato nulla; d’altronde, nel libro i richiami alla sottovalutazione sociale di un fenomeno mafioso così sfuggente e poco etichettabile sono frequenti: e quindi bene fa l’autore a ritenerla, oggi, la “quarta mafia”, perché le etichette saranno pure delle semplificazioni, ma aiutano a comprendere meglio.
Sebbene, come si è detto, la storia abbia conosciuto un’altra “quarta mafia”: ma non si tratta dell’usurpazione di un titolo, quanto della prosecuzione di una storia.
Infatti, la pervicace volontà di Cutolo determinò poi, quale reazione, la nascita della Sacra corona unita di Giuseppe Rogoli. Non a caso, tra i fondatori dell’organizzazione sacrista ritroviamo proprio tre foggiani: Giosué Rizzi, Giuseppe Iannelli e Cosimo Cappellari, i quali vengono definiti i “compari della Capitanata” del Rogoli. Quei criminali, con un sottobosco di sbandati e qualche “professionisti”, per contrastare l’avanzata dei camorristi nella Puglia felix tenteranno di ripercorrere ritualità, cultura e modalità di azione degli ‘ndranghetisti; si trattò di un tentativo, a tratti uno scimmiottamento, perché la potenza della ‘ndrangheta, tutt’ora incontrastata, non si raggiunse mai.
Ai primi anni del Duemila il fenomeno mafioso sacrista – alquanto anomalo nel panorama nazionale – poteva dirsi in esaurimento; ma più a nord, in Capitanata, nell’indifferenza generale si stava rafforzando una mafia violenta e affaristica al contempo. E bene fa Laronga, adesso, oltreché a raccontarla nei suoi mutamenti, a considerarla la “quarta mafia”; una seconda, nella speranza che anche per questa la storia possa riservare gli stessi destini della prima.
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