Gaetano continua ad attizzare la brace nel fornello a carbone nel centro storico di Lecce, il cielo è terso, la calma e il silenzio del vicolo abbracciano il movimento deciso dell’uomo. Lorenzo invece è concentrato nel ripiegare le sbavature della carta su una statua più grande di quella del collega. La fuliggine e la cenere volano in alto per ricadere a terra come un’improbabile nevicata autunnale nel sud Italia. Gaetano ravviva la fiamma con il lungo cucchiaio di acciaio, ma più che smuovere la brace deve rendere la punta dell’attrezzo quasi incandescente, dopo di che, fintanto che la punta è calda, cerca di sistemare e correggere le imperfezioni della statua di cartapesta. È la fuocheggiatura.
Gaetano de Pascali, da circa 15 è con il maestro Mario di Donfrancesco, e Lorenzo Stomeo, da 10 lavora anche lui presso la stessa bottega, sono usciti entrambi dagli studi dell’Accademia di Belle Arti per poi avviarsi verso una strada diversa rispetto a quella immaginata.
«Si parte da un manichino in paglia con uno scheletro di ferro all’interno, la testa, le mani ed i piedi sono in terracotta per le statuine o anche in cartapesta per quelle più grandi a seconda di come le richieda il cliente, perché hanno ovviamente costi diversi. Nel manichino di paglia si montano appunto la testa, le mani e i piedi in proporzione, si stende la cartapesta che è composta da un impasto di stracci vecchi e di carta di cellulosa bagnata con la colla da farina, bollita precedentemente, che raffreddandosi diventa durissimo. Poi si aggiunge il solfato di rame contro i tarli e quindi lavorando d’estate con il clima caldo si ha una maggiore durata nel tempo del manufatto», afferma Francesco de Vita, 52 anni, ex allievo di Donfrancesco, che da circa 20 anni ha aperto la propria bottega presso porta Napoli a Lecce.
«Dopo l’incartatura c’è la vestizione: si bagnano dei fogli che si sovrappongono agli altri in modo da avere uno spessore maggiore a seconda della grandezza della statua, e si fa il panneggio che è formato da tante pieghe accostate le une alle altre. Non è un foglio di carta unica arricciato e messo sopra, questa è la cartapesta turistica, in quella da laboratorio si vede il panneggio come scende, come gira. Successivamente si passa alla focheggiatura in cui la carta viene stirata con dei ferri, immaginiamo dei cucchiaini di diverse dimensioni per cancellare le giunture, per eliminare le imperfezioni dei diversi fogli di carta. Quasi uno scompattamento, ma ha una funzione pratica, non decorativa, perché tante volte si bruciacchia la carta per lasciarla ombreggiata, invece con questa procedura bisogna stirare la carta e modellare le pieghe che appunto vengono bruciate perché si deformano quando la cartapesta asciuga», continua De Vita.
I bozzetti impagliati a poco a poco assumono una forma umana. Più i visi e i movimenti vengono definiti più sembra che prendano una vita propria, burattini immobili, ingessati nella propria postura ma che sembrano possedere un’anima. Il maestro De Vita ripassa i colori del viso della Madonna, lei sembra osservarlo con benevolenza e gratitudine, se ci si accosta agli occhi della statua si può notare addirittura la ghiandola lacrimale! Una pregevole fattura e una minuzia di particolari che rende il lavoro dei cartapestai unico al mondo e portatori di una conoscenza che va oltre il mero lavoro artigianale e che diventa un’arte a tutto tondo. De Vita continua a pennellare il viso di Maria, nella magia di quel momento sembra che i due soggetti in un qualche modo stiano parlando tra loro.
«Su questa fuocheggiatura si applica un gesso per doratori, unito ad una colla di coniglio, in questo modo quando secca indurisce ma se riscaldato ritorna liquido e malleabile», continua De Vita. «È lo stesso procedimento che si fa sulle cornici di legno, perché come sulla cartapesta non si può stendere un colore bollente. Si spalma un gesso di Bologna e si raffina, si lava, si stucca e si dipinge a mano. Quindi c’è la coloritura di fondo, la patina, i chiariscuri e la coloritura finale. C’è una seconda fuocheggiatura e infine il panneggio che deve essere il più veritiero possibile». Quest’ultimo procedimento consisterebbe nella vera e propria vestizione con abiti o coperture di stoffa delle statue di cartapesta.
De Vita iniziò a 8 anni come un hobby, «Perché mia nonna non voleva che passassi troppo tempo in strada, anche se io ci andavo lo stesso. Lei possedeva una Madonna antica, un’Addolorata di famiglia da restaurare. Da poco aveva aperto il laboratorio di Donfrancesco dove prima c’era un gioco del lotto per persone anziane, e ricordo mia nonna esclamare: “Ma come, prima c’era il diavolo e ora ci sono i santi!”. Nel laboratorio c’erano dei pastorelli di terracotta che gli allievi stavano dipingendo, chiesi se potevo aiutarli, così iniziai ad andare il pomeriggio presso la bottega, non sempre perché dovevo fare i compiti. Mi piaceva anche perché c’erano altri bambini della mia età, era un ambiente confortevole, si era instaurata una bella amicizia con tutti e con il mastro cartapestaio».
La maggior parte dei lavori vengono commissionati dalle chiese, dove nel corso dell’ultimo secolo molte statue in pietra e legno sono state sostituite con quelle di cartapesta per sopperire all’elevato peso di quest’ultime che poi dovevano essere portate a spalla durante le processioni religiose. Con la secolarizzazione e il diminuire della devozione da parte dei fedeli molte delle commissione dei privati è andata scemando. «I tempi sono cambiati, mentre prima il problema era che il parroco voleva una statua in chiesa e doveva trovare la devota tra virgolette che gliela donasse, adesso in alcuni casi, c’è il problema contrario: la devota vuole donare la statua e il parroco non la vuole perché non sa dove metterla, magari preferisce soldi per comprare altre cose. Molti parroci hanno tolto tutte le statue antiche, accatastate in sacrestie perché non piacevano e tirandole fuori durante la festa di quel santo», spiega de Vita.
Invece, secondo il maestro Di Donfrancesco, 78 anni, «Il decadimento è iniziato intorno agli anni ‘60, quando con il Concilio Vaticano II è cambiato tutto l’aspetto della morfologia delle chiese, e quindi degli arredi. Così ci si è rivolti ad altri materiali quando prima veniva usata solo la cartapesta, e conseguentemente meno commissioni per noi. I vari concorrenti in legno e in plastica si sono fatti più agguerriti, per cui le statue che noi producevamo a un prezzo di 10, loro riuscivano a riprodurle a un valore di 2 o 3, non possiamo rapportarci economicamente con questo tipo di mercato».
Il lavoro avrebbe bisogno di un rinnovamento, non solo giovanile, ma del tipo di figure che devono essere rappresentate. «Ho cresciuto tanti cartapestai, in moltissimi hanno abbandonato mentre De Vita è stato uno dei piccoli semi che invece ha germogliato. Facciamo dei corsi di formazione qui alla chiesa della Nova insieme a Italia Nostra, ma non riusciamo ad avere giovani, facciamo anche sconti agli studenti, ma non si avvicinano, perché è un’attività lunga e a volte un po’ noiosa. Per fare una bella manina di 2/3 cm ci impieghi una settimana se hai dimestichezza, è difficile trovare un ragazzo che dedica tutto questo tempo così». Afferma scosolato Di Donfrancesco e ammette che forse i soggetti dovrebbero essere cambiati, rimodernati, ma «… uno dei miei limiti e dei miei colleghi è che abbiamo una forma mentis accademica che ci impone di fare santi e madonne eseguiti in un certo modo. Per esempio ricordo un esperimento che facemmo con un designer per un hotel in città per fare dei vasi in cartapesta, ovviamento l’interno era in cristallo. Un bel progetto, ma poi non ha avuto seguito. Il nostro problema è la commmercializzazione, non abbiamo la capacità di immettere sul mercato cose che che non siano quelle che già sappiamo fare, così siamo tornati indietro, a fare le solite cose», afferma amaramente Di Donfrancesco.
«I giovani ci sono, prima c’era anche una scuola che formava, che faceva dei corsi a livello amatoriale da cui qualcuno è uscito, ma la migliore scuola è la bottega, anche se frequentandola solo un anno non si diventa cartapestaio, ci vogliono anni di esperienza e di dedizione. Perché prima di aprire la mia attività sono stato 20 anni sotto il maestro Malecore, c’è gente che lo ha fatto per pochi mesi ed ha aperto la bottega prima di me», sostiene De Vita.
Ma il punto è un altro, il mercato. «Ci sono diversi tipi di cartapesta: quella a regola d’arte fatta dai bottegai, e quella turistica più commerciale dove si usa la carta colorata e le statuette non vengono dipinte, ma parliamo di figurine per presepi, piccoli oggetti da souvenier, perché a Lecce siamo in pochi ad essere gli esperti per fare una statua grande per una sagra. Poi ci sono laboratori come il mio, che producono e vendono, e ci sono i negozi che vendono solamente che hanno tanta di quella merce esposta che un laboratorio non potrà mai avere perché si lavora su commissione. Nei momenti di tranquillità si può fare qualche sciocchezza per la vendita, però il grosso va ordinato, perché ci sono dei lavori in cui ci vogliono mesi di realizzazione. Infine nella lavorazione a regola d’arte si usano tecniche antiche, rispettando le diverse fasi di lavorazione senza far passare i difetti per imperfezioni, quest’ultime ci possono essere, ma non deve essere la regola», continua de Vita.
«L’imperfezione in un certo qual modo potrebbe essere vista come un pregio», sembra fargli eco Di Donfrancesco incalzato sullo stesso argomento. «Mi spiego. A volte si vede un piede che non è incollato bene, oppure l’autore si è dimenticato di fare l’ultima unghia, piccolissimi particolare che indicano che è fatto a mano, per cui ci sta che questo particolare possa sfuggire, a differenza di statue fatte in 3D che sono tutte perfettissime».
Secondo i due maestri la cartapesta dei mastri bottegai nel medio lungo periodo a Lecce è destinata a scomparire, dovuta alla mancanza di nuova forza lavorativa giovane che possa seguire il loro corso. Magari che sia in grado di rinnovare il panorama con nuove idee che si sleghino al solito concetto religioso e presepiale, per attrarre un pubblico più vasto. «Infatti la nostra clientela è di nicchia. C’è l’intenditore che vuole vedere la bella mano, il bel viso, l’atteggiamento, la buona fattura, piuttosto che le solite statue standardizzate che trovi in tutte le chiese. Solo che il pubblico essendo di nicchia non fa campare bene tutte le botteghe che ci sono, né fa proliferare». Secondo Di Donfrancesco «… ci vorrebbero più associazioni che coinvolgano i giovani e il pubblico, perché in bottega difficilmente vai a fare il vaso, o la sedia di cartapesta… quando vai in bottega hai bisogno di guadagnare perché a fine mese devi pagare l’affitto, ricavare un guadagno per te, per cui bisogna fare per forza quella Madonna, o quel presepe, inevitabilmente c’è poco spazio di manovra per la sperimentazione, perché comuque richiede un tempo lungo».
Secondo le parole di Di Donfrancesco, uno dei lavori ai quali è particolarmente legato, a parte alcuni fatti con il proprio maestro Malecore, è quello realizzato per la cattedrale di San Patrick a New York, in cui si è dovuto confrontare con una mentalità e realtà diversa. «Realizzammo un grandissimo presepe che non era la classica Natività, ma ci hanno messo un po’ della loro cultura, quindi persone con zebre e un sacco di personaggi strani che mi ha aperto gli occhi su un mondo che 30 anni fa non potevo neanche immaginare».
Eppure ci fu un Siglo de Oro per i cartapestai sul finire dell’800 fino a metà del 900 in cui le grandi maestranze avevano interi stabilimenti con fino a 50 operai impiegati, uomini e donne specializzati nelle diverse fasi della lavorazione della cartapesta. «Questi maestri con il tempo si sono ingranditi al punto da stampare dei cataloghi che venivano portati in tutto il mondo grazie agli emigranti che ordinavano le statue devozionali dei propri paesi d’origine. Così la cartapesta leccese è arrivata fino agli Usa», afferma De Vita.
Ma oggi è tutt’altro discorso. «Non so cosa fare di tutto quel ben di Dio che ho nella mia bottega, come non lo sanno neanche i miei colleghi, alla fine che ne sarà di noi e di tutte le nostre opere? Abbiamo cercato di formare anche tramite associazioni private come con Italia Nostra, piuttosto che ripetere gli esperimenti falliti negli anni ‘70 nel liceo artistico. Furono tentativi troppo sporadici e non furono capaci di impiantare il seme, infatti siamo sempre gli stessi a portare avanti questa forma di arte. Avendo già una certa età la vedo molto dura per i prossimi 20/30 anni», dice sconsolato Di Donfrancesco.
Forse si dovrebbe seguire in un certo senso l’esempio di Napoli, dove a San Gregorio Armeno le varie forme presepiali si intermezzano ai personaggi famosi, da Lady Gaga a Barak Obama, da Berlusconi a Trump … sebbene nella capitale partenopea le botteghe che si trovavano nel centro storico sono state fagocitate dalla gentrificazione turistica. Forse si potrebbero immaginare dei presepi con figure moderne e vestiti non classici per attrarre l’attenzione di un pubblico più o meno giovane. Si dovrebbero portare i nuovi designer della moda e degli interni in bottega e portare i cartapestai negli atelier dei designer, una commistione di idee dal quale potrebbe nascere un filone che si potrebbe aggiungere a quello già esistente … il tutto senza per forza di cose dover abbandonare quello che c’è stato prima.
La stauta della Madonna continua a osservare De Vita concentrato sul suo viso, chissà se per una qualche alchimia riuscirà a sussurrargli la via d’uscita per non far scomparire una maestranza che affonda le radici a metà del ‘700.
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