La giustizia senza furori ideologici

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Se andiamo in giro per il mondo non credo che ci siano molte Carte costituzionali che prevedano l’obbligatorietà. Sta di fatto che dove non si è accecati da furore ideologico si è consapevoli di due evidenze:

a) l’esercizio dell’azione presuppone, in primo luogo e necessariamente l’indagine e in un Paese che non sia governato da un occhiuto “grande fratello” o da una “Stasi” di turno, ossia in un Paese che aspiri ad essere qualcosa di simile a uno Stato democratico, un’indagine a tutto campo, che penetri di soppiatto e per lunghi periodi nelle sfere private in base a meri sospetti o a semplici denunce, finisce per essere inevitabilmente il frutto di scelte (saggiamente) discrezionali, mai obbligate;

b) conclusa l’indagine, il pubblico ministero non ha certezze da distribuire, ha soltanto da formulare ipotesi fondate sulla previsione che siano ritenute fondate. Anche in questo momento fa scelte che non sono “obbligate”, ma soltanto “ragionevoli”. In realtà – e i Costituenti non se ne resero conto (infatti il dibattito in Commissione ci appare singolarmente superficiale, tranne qualche preoccupato avvertimento di Leone) – l’obbligatorietà finisce per essere lo scudo protettivo del pubblico ministero, che viene esonerato da qualsiasi responsabilità perché ha “l’obbligo di agire” e che conviene a chi trae da processi avventati il vantaggio di un proscenio mediaticamente accattivante. Potremmo riflettere sull’art. 109 Cost. secondo cui l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. È una disposizione che si pone sulla delicata linea di confine tra la repressione (che dovrebbe essere l’obiettivo di chi esercita l’azione penale) e la prevenzione (che dovrebbe riguardare gli organismi preposti alla sicurezza). Nell’attuale evoluzione, infatti, il diritto penale della prevenzione (che nella Costituzione fa timida apparizione nell’ultimo comma dell’art. 25) si sovrappone a quello della repressione, che diviene sempre più marginale.

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Di più. La pena da processo finisce con l’essere assai più afflittiva della pena comminata a conclusione del processo. E il pubblico ministero da rappresentante dell’accusa si trasforma in responsabile della sicurezza (che nei modelli a cui facciamo l’occhiolino sono affidati a non so quanto affidabili “sceriffi”).

Potremmo riflettere sull’intero Titolo IV della Costituzione, che inserisce nell’unico corpo (la Magistratura) giudici e pubblici ministeri. Fu una scelta legata ai tempi e divenuta obsoleta o fu una felice intuizione dei Costituenti? Vado controcorrente. I Costituenti ben sapevano dell’esistenza di sistemi in cui il “persecutore pubblico” fa parte del potere esecutivo. Consapevolmente rifiutarono questo modello, spingendosi fino a dettare l’equivoco articolo sull’obbligatorietà dell’azione penale. Ritennero che il modello anglosassone potesse minare l’equilibrio dei poteri (e, guardando a ciò che oggi succede negli Stati Uniti d’America non mi riesce di dare loro torto). Costruirono un “ibrido”, confidando nella “comune cultura della giurisdizione” (che negli anni successivi sarà sbandierata a mò di vessillo dalla magistratura associata) e ritenendo che dal reciproco confronto, quale si svolge quotidianamente nelle stanze dell’unico Csm, potesse nascere un comune modo di sentire per il quale il pubblico ministero finisce o dovrebbe finire con l’essere un po’ giudice, prima ancora che attore nel processo.

Di ciò consapevoli, potremmo e dovremmo chiederci se, estraendo dalla Magistratura i pubblici ministeri, costruendoli come un corpo separato, presidiato da garanzie di autonomia e indipendenza non minori di quelle riconosciute ai giudici, non si corra il rischio di un esercizio degli inevitabili poteri d’indagine e di scelta ancora più invasivo e ancora meno controllato di quanto avviene oggi, a meno che dietro la proposta di separare le carriere non si annidi il subdolo tentativo del potere esecutivo di controllare l’operato delle Procure.

Potremmo, infine, riflettere sull’art. 107 ult. comma della Costituzione. Saggiamente, infatti, i Costituenti non scrissero che i pubblici ministeri godono delle stesse garanzie stabilite per i giudici, ma di quelle stabilite nei loro riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Erano ben consapevoli che i pubblici ministeri non giudicano, ma agiscono e che, pertanto, in relazione alle loro diverse funzioni c’era bisogno di costruire diversamente le nomine, le assegnazioni, la carriera, la responsabilità disciplinare e quella civile per danni. Prima di avventurarci per riforme di assai incerto risultato, potremmo dalle ultime vicende trarre, insomma, lo spunto per abbandonare il furore ideologico, che spesso nasconde un populismo di bassa estrazione, e usare una buona volta le nostre intelligenze per un calcolo accurato dei costi e dei benefici delle riforme.

A proposito dei quali il cittadino ha diritto di chiedersi quanto costino alla collettività processi come quelli qui richiamati o tanti altri in cui sembra quasi che ai giudici si chieda di fare la storia delle non commendevoli vicende che hanno visto coinvolto il nostro Paese. Si tratta di spese che potrebbero essere utilmente dirottate per rendere giustizia nelle cause riguardanti i comuni cittadini. La scarsa efficienza del nostro sistema dipende anche da questo.



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