Opinioni | Le riforme che servono alla giustizia

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La coincidenza temporale tra il proscioglimento di un Matteo (Renzi) nel procedimento Open e l’assoluzione dell’altro nel processo Open Arms (Salvini) ripropone il problema del rapporto tra politica e giustizia, con il primo che chiede le scuse di chi ha strumentalizzato le accuse a suo carico e il secondo che invita ad accelerare con l’approvazione di nuove norme: «Riforme, riforme, riforme». A cominciare da quella costituzionale già incardinata in Parlamento che comprende separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, doppio Csm e un’Alta corte esterna per le sanzioni disciplinari; scelte destinate a inasprire le tensioni tra il governo e le toghe (di ogni estrazione politica e culturale, non solo quelle «rosse»), e fra maggioranza e opposizione. Non il miglior viatico. Restando poi da dimostrare quanto queste riforme possano evitare o ridurre le peripezie giudiziarie lamentate dai due imputati «eccellenti», che dicono di parlare a nome dei tanti altri senza nome costretti a subire le stesse sorti,

Il fatto che a Firenze un giudice dell’udienza preliminare abbia negato il rinvio a giudizio di Renzi chiesto dalla Procura dipende – oltre che dall’accidentato percorso dell’indagine, già indebolita strada facendo – da una riforma voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia e introdotta di recente, che ha alzato l’asticella da superare per mandare un imputato alla sbarra; non più, com’era prima, quando ci sono elementi per sostenere l’accusa in dibattimento ma solo in presenza di una «ragionevole previsione di condanna».




















































Quando fu rinviato a giudizio Salvini, nel 2021, valeva la regola precedente, e il filtro esercitato dal giudice aveva ancora maglie più larghe. Inoltre, prima del gup, gli ipotetici reati commessi dall’allora ministro dell’Interno erano già stati valutati da due procure (Agrigento e Palermo) e dal tribunale territoriale dei ministri composto da tre magistrati, oltre ai senatori che hanno deciso l’autorizzazione a procedere, negando il «preminente interesse pubblico» che avrebbe garantito l’immunità al vice-premier. Un percorso che consente quantomeno di dubitare che il processo fosse «fondato sul nulla», come s’è affrettato a commentare il ministro della Giustizia.

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La distorsione sta piuttosto nel fatto che il dibattimento è durato tre anni e tre mesi, durante i quali si sono tenute 25 udienze. Tempi incompatibili con una giustizia efficiente, efficace e credibile, sui quali hanno inciso diversi fattori; dagli altri processi che hanno occupato gli stessi giudici, compresi alcuni complessi per mafia (con imputati detenuti, che hanno sempre la precedenza) e reati contro la pubblica amministrazione, fino agli impegni politici e istituzionali dell’imputato e del suo difensore. A detta di tutti gli operatori del diritto che frequentano ogni giorno i palazzi di giustizia, però, le riforme già approvate a quelle in cantiere, serviranno poco o nulla ad accelerare i tempi di indagini e udienze. Anzi, alcune potrebbero rallentarli ulteriormente.

Ma al di là di tutte queste considerazioni, resta la questione di fondo sottesa alla «madre di tutte le riforme», la separazione delle carriere, sulla quale il conflitto tra politica e giustizia s’è già nuovamente infiammato: il presunto appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, la non equidistanza tra accusa e difesa davanti al giudice, «unico soggetto non imparziale» davanti alle due parti contendenti. Che non sia questo il principale ostacolo da rimuovere (dopo che le limitazioni già in vigore hanno quasi azzerato il passaggio da una funzione all’altra) sembrano dimostrarlo proprio gli esiti dei procedimenti Open e Open Arms; e le tante (troppe?) assoluzioni in dibattimento di cui spesso si lamentano gli stessi promotori della riforma, e di cui la magistratura mostra di non farsi sufficientemente carico. Semmai c’è il rischio che un corpo di pm separato e autonomo (fino a quando?) maturi un’impostazione sempre più tesa all’ottenimento della condanna ad ogni costo, anziché al raggiungimento della verità. A ulteriore detrimento di indagati e imputati.

Su questo e altro occorrerebbe ragionare per arrivare a sciogliere i veri nodi che avvinghiano l’amministrazione della giustizia; senza conflitti esasperati e senza farsi condizionare dalle vicende di singoli imputati, più o meno «eccellenti».

21 dicembre 2024



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