«Solo da adulta, quando frequentavo l’Università, ho acquisito la consapevolezza che quello di cui si parlava a casa mia era un pezzo di storia del Paese e non un incidente o una calamità naturale». Parole di Rosaria Manzo, 40 anni compiuti a maggio, gli stessi che ci separano dalla strage del Rapido 904, partito da Napoli e diretto a Milano subito prima di Natale, con oltre 600 passeggeri a bordo. È la figlia di Giovanni Manzo, il macchinista che guidava il treno nella galleria San Benedetto Val di Sambro, tra l’Emilia e la Toscana, il 23 dicembre 1984 quando l’esplosione di una bomba nella carrozza 9 di seconda classe – a metà del convoglio – uccise 16 persone e ne ferì 267. Una strage che ricorda quella dell’Italicus dell’agosto 1974. Rosaria a dicembre 1984 aveva sette mesi, oggi è la presidente dell’associazione dei familiari delle vittime.
«MOLTI PARENTI di chi morì e i superstiti che erano sul treno – racconta – parlano di un prima e di un dopo. Nel mio caso non c’è, perché io sono nata con la strage, ha sempre fatto parte della mia vita, sebbene mio padre non abbia riportato ferite. Lui, figlio di ferroviere, era stato assunto proprio nel 1984, quando aveva 29 anni e due figlie. Oltre a me, Caterina, più grande di due anni. Si era trasferito in Emilia Romagna perché lavorava abitualmente sulla tratta tra Firenze a Milano. Noi avremmo dovuto raggiungerlo di lì a poco. Mamma aveva già comprato la pelliccia». Di quel 23 dicembre, una domenica, Rosaria Manzo non ha memoria diretta, troppo piccola: «Mi sorella mi ha invece raccontato un ricordo: tantissime scarpe. Quelle dei parenti e dei vicini che si precipitarono a casa nostra a Cercola, nel vesuviano, quando il telegiornale della sera diffuse la notizia. Papà riuscì a telefonare all’alba. Disse che stava bene e che il suo unico desiderio era di tornare».
È MAI PIÙ SALITO su un treno? «Cinque o sei mesi dopo riprese il suo lavoro di macchinista, ma durò poco. Rimase in biglietteria fino alla pensione. Quanto a mamma, per il terrore e l’incertezza smise di allattarmi». Giovanni Manzo oggi continua ad avere poca voglia di andare indietro con la memoria a quella sera di antivigilia del 1984: «Non ha mai voluto parlarne in famiglia. Dal ritaglio di un giornale dell’unica intervista che rilasciò, so che corse nel buio fino alla colonnina della richiesta di soccorso, convinse le persone a risalire sul treno e lo condusse fuori dalla galleria. La mia conoscenza della strage deriva più dai familiari delle vittime che da lui. Hanno impresso nella memoria l’ odore nauseabondo di ferro e sangue bruciato nel vagone. C’è chi ricorda un enorme boato e poi il silenzio e chi racconta che non sentì nulla e che si trovò nel mezzo di una confusione pazzesca».
Restano punti oscuri. È in corso un’altra indagine della procura di Firenze per individuare eventuali legami tra mafia, servizi segreti e neofascisti Rosaria Manzo
TRA LE STORIE, quella di Federica Taglialatela: «Per un periodo – continua Rosaria Manzo – ho lavorato a Ischia. Ho incontrato lì Rosaria Gallinaro, la madre. Gestiva una pensione sul mare ed è morta un anno fa. Il 23 dicembre 1984 era sul Rapido 904 con il marito Gioacchino, con Federica, che aveva 14 anni, e con Gianluca, l’altro figlio. Andavano in vacanza sulla neve. Mi ha detto che pochi minuti prima dello scoppio, che avvenne alle 19.08, era uscita nel corridoio per fumare. Quando era rientrata, vide che aveva preso il suo posto. Federica si era offerta di restituirglielo, Rosaria le aveva detto di non preoccuparsi. La figlia è morta al posto della madre, che ha riportato ferite al volto e a un occhio. Il marito, che sarebbe poi deceduto nel 1986, raccontò in ospedale che subito dopo lo scoppio, immobile e dolorante nel buio e nel gelo, teneva la mano di Federica. Percepì minuto dopo minuto che lei allentava la presa». Morirono con i genitori su quel treno anche i fratellini Anna e Giovanni De Simone. «Il padre -ricorda Manzo – lavorava all’Enel, la madre era insegnante. Erano partiti da Napoli per andare a trovare i parenti che vivevano a Milano».
PER L’INDAGINE fu coniata per la prima volta la locuzione «terrorismo mafioso». Quarant’anni dopo, secondo la presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, restano domande inevase sui mandanti: «In tutte le sentenze si parla di legami e la domanda senza risposta è tra chi fossero quei legami. Pippo Calò non era solo il cassiere della mafia, ma l’uomo di collegamento tra Roma e la Sicilia. È difficile credere che abbia deciso con la collaborazione soltanto del suo braccio destro nella Capitale. Quel Guido Cercola che si sarebbe poi suicidato in carcere nel 2005». Con sentenza passata in giudicato sono stati condannati per la strage del rapido 904 Calò, Cercola, Franco Di Agostino, individuato dai giudici come colui che piazzò la bomba e anch’egli appartenente al clan di Calò, il tedesco Friedrich Schaudinn, considerato l’artificiere. La strage fu una risposta della mafia all’operazione San Michele: 366 mandati di cattura a settembre 1984 contro i mafiosi, a seguito delle rivelazioni a Giovanni Falcone da parte del pentito Tommaso Buscetta.
«IN QUESTA RICOSTRUZIONE – sostiene Rosaria Manzo – mancano però alcuni tasselli. Potrebbero avere architettato la strage anche altri soggetti. In accordo con la mafia e per fini diversi. Altre piste sono state esplorate senza risultato nel corso di 6 processi celebrati in 8 anni. L’ex parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo è stato prosciolto dall’accusa di strage e condannato esclusivamente per la detenzione di esplosivo. Per l’esplosivo, ma non per la strage, sono stati condannati anche i tre imputati legati alla camorra che professava simpatie per il neofascismo: Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso. Più recentemente Salvatore Riina è stato prosciolto in primo grado e non c’è stato mai il processo d’appello per la morte dell’imputato».
RESTANO, però, punti oscuri: «Si pensi solo che Schaudinn raccontò in una intervista di essere scappato dall’Italia grazie a un passaporto fornitogli dall’ambasciata tedesca». Lei non si arrende: «È in corso un’altra indagine della procura di Firenze per individuare eventuali legami tra mafia, servizi segreti e destra neofascista. Non conosco i dettagli, ma è positivo lo sforzo di cercare altri pezzi di verità».
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