Nella provincia di Padova si contano 326 centenari. Dieci anni prima, nel 2014, erano 283. In un decennio dunque l’aspettativa di vita è aumentata e le persone che hanno raggiunto o superato il secolo sono diventate 43 in più.
Se andiamo ancora più indietro nel tempo, al 2009, i centenari erano 159, addirittura in quindici anni se ne contano 167 in più.
In Veneto le persone che hanno raggiunto e superato il secolo sono 1.849, nel 2024, dieci anni fa, erano 1.526, dunque 323 in più e dal 2009 addirittura 925 in più.
La provincia più longeva è Venezia con 364 centenari, segue Verona con 360 grandi anziani e in terza posizione troviamo Treviso con 324 centenari.
Adelina e Jolanda e il segreto per essere centenarie in gamba
Il fenomeno della longevità
La durata della vita notevolmente superiore alla media si deve a medicina e scienza, alla crescente consapevolezza di quanto sia importante vivere bene, seguendo regole sane (come la dieta e lo sport) che aiutano la genetica.
Gli studi ci dicono che entro il 2050 il numero di anziani potrebbe eguagliare quello della popolazione in età lavorativa e non saranno solo anziani frizzanti e vivaci perché, contemporaneamente, aumenta la popolazione degli over 65 non autosufficienti.
Le strutture che accolgono e si prendono cura della terza età nel Padovano hanno tutte le liste di attesa, non trovano il personale (soprattutto oss e infermieri) necessario e hanno costi importanti.
«Il fenomeno della longevità invita a riflettere sugli effetti dell’invecchiamento demografico», interviene Fabio Toso, direttore della Fondazione Oic, presente nei territori di Padova, Vicenza, Treviso, Mantova e Gorizia con 12 centri residenziali.
«Tra i grandi anziani ci sono quelli che invecchiano bene e che sono protagonisti della vita con storie interessanti. L’età media di ingresso nelle strutture di assistenza è 88 anni, ma non tutti sono autosufficienti, anzi, la maggior parte ha cronicità conclamate e pluri-patologie. Per dare il miglior servizio è fondamentale la componente sanitaria di livello ospedaliero, che naturalmente comporta maggiore impegno medico ed infermieristico».
Tanto più che il registro regionale, che stabilisce la priorità d’ingresso in base al punteggio più alto (i più fragili sono ai primi posti) è unico e dunque le Rsa finiscono per accogliere soprattutto chi ha bisogno di assistenza.
Manca il personale
«Comprendiamo la logica che mette al primo posto le persone più fragili, ma presenta delle lacune», continua il direttore. «La più importante riguarda la carenza di personale», spiega Toso, «prima di tutto perché mancano proprio le persone in età da lavoro. Per quanto in casa di riposo ci sono i turni, fai mezza giornata, lavori in team, non è un’occupazione solitaria, né alienante come una fabbrica, non è particolarmente attrattiva».
La Fondazione ha 1.600 lavoratori per 2 mila ospiti, di cui 1.300 dipendenti: «Abbiamo dovuto fare ricorso alle cooperative e al lavoro interinale perché non riuscivamo a trovare personale».
Tanto da cercarlo all’estero, ed è qui che il direttore Toso muove una critica al sistema sanitario: «Noi dobbiamo dare la “caccia” al personale, il pubblico invece – che è più strutturato – fa i concorsi. Insomma chi ha la forza politica per formare dei lavoratori stranieri, il Ministero e la Regione, non lo fa e lascia questa incombenza a noi. Ci rivolgiamo in particolare all’Albania, all’India e al Sud America. Con l’Albania c’è un rapporto privilegiato perché spesso conoscono l’italiano, quelli del Sud America fanno presto ad imparare, del resto noi abbiamo personale di affiancamento formato da anni. Però è uno sforzo economico importante: la formazione dura un anno e mezzo, il mestiere lo sanno fare bene ma abbiamo lo scoglio della lingua che è fondamentale per stabilire delle relazioni di fiducia con l’anziano. Il problema lo riscontriamo, vien da sé, soprattutto con gli indiani che, invece, sarebbero quelli più preparati: studiano 4 anni invece di 3 e hanno un livello di preparazione molto alto».
I costi in aumento
I costi per le famiglie sono importanti. Mediamente le tariffe sono di 110 euro al giorno per un utente, di cui 52 euro li mette la Regione e 58-64 la famiglia.
Ma la combinazione regione-famiglia dipende da molti fattori: la salute della persona, il reddito ed è facile superare i 3 mila euro al mese.
«È importante che un anziano non sia solo curato, ma possa stabilire delle relazioni, che abbia stimoli continui, in una comunità viva e vivace: terapie, ginnastica, ma anche occasioni per stare con gli altri e, perché no, divertirsi. Per noi poi un fiore all’occhiello sono le nostre cucine, adeguate alle terapie ma con gusto».
E per i centenari? «La cura non cambia, diciamo che ci sono accorgimenti particolari. Parliamo di persone che hanno vissuto due guerre, la Spagnola e il Covid. Abbiamo il dovere di dare significato alla loro presenza. In un mondo veloce come il nostro, i centenari hanno una maturità che rappresenta un insegnamento per tutti».
Jolanda, un secolo portato bene: «Nella risata il senso della vita»
«Ridere è una medicina e una consolazione, nella risata di chi ama ed è amato c’è un po’ del senso della vita». Jolanda Paccagnella, 100 anni compiuti il 12 febbraio, è una forza della natura.
Divertente, spiritosa, irriverente e, se serve, impertinente, tra un sorriso ironico e una battuta, coglie la profondità dell’esistenza: «Nella vita c’è il bello e c’è il brutto», spiega, «ma sono le cose belle quelle che dobbiamo ricordare: avere qualcosa da mangiare, le persone che ci vogliono bene e a cui noi ne vogliamo, conoscere, vedere, essere allegri. Per il brutto c’è un antidoto: essere buoni dentro e saper perdonare».
Jolanda fuma, quando capita non disdegna un goccio di birra.
«Una volta ero anche una buona forchetta», racconta, «facevo una polenta magnifica. Ora mangio medicine».
Nella sua vita c’è stato un grande amore, Fidenzio, il marito, due figli e molte risate, che continuano anche dopo un secolo di vita: «Il mio Fidenzio era un amore», sorride, «e la vita l’abbiamo affrontata prendendola come veniva. Mangiando quello che avevamo, stando assieme alla gente e prendendo il meglio che potevamo».
Si sta meglio oggi o si stava meglio ieri? Iolanda ci pensa su: la televisione non le piace («rovina il cervello a guardarla tanto»), ma le donne, le piacciono di più oggi: «Io non ho mai avuto paura di nessuno», spiega, «sono stata una lavoratrice: ero sarta e i pantaloni come li facevo io, non li sapeva fare nessuno: non finivo un lavoro se non era perfetto, lo diceva il mio datore di lavoro. Eppure le donne oggi possono fare tante cose. Dico che se comandassero loro, tutto sarebbe meglio».
A Jolanda piace lo smalto, le sarebbe piaciuto anche mettere il rossetto, insomma le piace la donna moderna: «Quando io ero giovane non potevo fare tutto quello che volevo. Lo facevo lo stesso, ma non c’era la libertà che c’è oggi. Siamo quello che siamo e piangerci sopra non serve a niente, ma quando vedo le ragazzine che non si sentono belle e pensano che questa sia la cosa più importante, vorrei dire loro: tu vali, vali un milione di volte di più, non dimenticarlo».
Adelina, 104 anni e ricordi lucidi: «Il tempo è passato così in fretta»
Adelina Galeazzo il 31 agosto ha compiuto 104 anni. È nata nel 1920, in centro, a Padova. Ha ricordi lucidissimi della sua vita e di quello che accadeva intorno a lei. Tanto che ha scritto un libro – Le mie memorie – sulla seconda guerra mondiale.
«Mio padre era un uomo di fiducia dello Stato», racconta, «mentre la mia mamma era malata ed io, già da bambina, avevo il compito di assisterla. Durante i bombardamenti mio padre aveva costruito un carretto, mia mamma la mettevamo dentro per trasportarla velocemente nei rifugi. Abbiamo conosciuto la fame e la miseria. Mio padre iniziò a fare l’ortolano per assicurarsi un po’ di cibo: eravamo sei fratelli. Mi sono sposata una prima volta giovanissima, poi mio marito è andato in guerra e non è più tornato. Allora anche io ho cominciato a fare l’ortolana: avevo tre bambini piccoli».
Adelina, a dispetto dei sacrifici e delle privazioni, ha sempre avuto un’indole spericolata e ribelle: guidava la moto, le piaceva correre sentendo il vento sulla faccia e, a 19 anni, con un’amica, ha sfidato tutto: la morte, i nazisti, i mitra puntati in faccia.
«Eravamo due ragazze, stanche, tremendamente stanche di vedere tanta ingiustizia», racconta, «loro, i soldati tedeschi, rubavano e uccidevano, così un giorno gli abbiamo rubato un po’ di burro».
La reazione è stata terribile: «Sono entrati in casa, hanno squarciato i materassi con i mitra per vedere se il burro era nascosto lì, poi ci hanno messo in fila, fuori da casa: pensavamo ci fucilassero. Ma io e la mia amica non abbiamo parlato e il nostro tesoro è rimasto nella fodera interna del mio pantalone». Scampato pericolo.
«E alla fine era pure margarina», ride.
I 104 anni di Adelina sono passati «in fretta», ammette candidamente, «tra tanto lavoro, tre figli da crescere da sola e in mezzo la guerra, le malattie e la paura».
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