L’Italia potrà contare di più in Africa grazie al Piano Mattei?

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Parlare di Africa oggi può risultare facile, spesso sentiamo parlare giustappunto di “Africa” anziché di Nigeria, Senegal, Kenya, Mozambico. Come se appartenessero ad un unico Paese. “Oggi viviamo un tardivo rigetto dell’Occidente, mancato dopo le indipendenze e maturato negli anni dopo le varie guerre in Rwanda, Costa d’Avorio”, spiega a Start Magazine il docente di Geografia dello sviluppo in Africa ed esperto di Relazioni internazionali Jean Leonard Touadi. La fine dell’egemonia americana e della presenza-influenza francese nel continente africano apre, non da oggi ma sempre più, nuovi spazi.

RUOLO ITALIANO E PIANO MATTEI

“L’Italia può essere un’alternativa europea, un qualcosa che non nasce con il governo Meloni, checché se ne dica, ma con l’esecutivo guidato da Matteo Renzi”. È da allora che è ripreso un ritmo di missioni in Africa dei presidenti del Consiglio a dir poco assiduo. Non solo nel Corno d’Africa, “dopo il protagonismo di Craxi degli anni Ottanta”, perché ora l’interesse di Roma che è sfociato nel meloniano Piano Mattei è preminentemente energetico. “Un nuovo target diplomatico”, spiega Touadi, che in passato non c’era. Niger, Mali, Senegal, i Paesi della fascia sahariana o altri come il Kenya sono altri crescenti interlocutori dell’Italia. “A cui tocca l’onere della prova della riuscita di questo nuovo dialogo. Al summit di gennaio scorso a Roma i leader africani ammonirono il governo per non essere stati coinvolti prima sui progetti”. La vera sfida di adesso è strutturare questa nuova collaborazione interstatale, secondo Touadi. “E, in secondo luogo, di non far coincidere gli obiettivi di queste relazioni solo con gli obiettivi energetici del Piano Mattei”. Che dev’essere per l’Africa e andare oltre i rapporti con Algeria e Mozambico, che oggi hanno preso il posto della Russia negli approvvigionamenti.

“Per lungo tempo il Piano Mattei è stato un qualcosa di mediatico, serve strutturarlo e riempirlo di contenuti. I governi africani vedono questo come un progetto italiano, non destinato al loro sviluppo”. Quali sono le vere priorità di questo piano? Come si può concretizzare e aumentare la dotazione finanziaria per i progetti? Sono domande che rimangono aperte, in una fase in cui il dossier è all’esame del parlamento e le opposizioni al governo Meloni hanno più volte chiesto maggiori dettagli sulla strategia che porta il nome del fondatore dell’Eni. Oltre a sottolineare che per ora sono stati soltanto riciclati vecchi piani, ridestinando risorse già stanziate in altri fondi.

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Al momento in cui scriviamo, nel Piano ufficiale ci sono quattro settori di riferimento (istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia), fondi pubblici già operativi, risorse multilaterali e bilaterali, nove Paesi cui sono destinati diversi progetti – anche se non è chiaro il metodo di selezione adottato – e un orizzonte temporale minimo di cinque anni. “Se l’Italia vuole destinare gas e petrolio dall’Africa all’Europa, diventando un hub energetico, deve in realtà dimostrare che c’è anche altro”, racconta Touadi su quanto scrivono i media africani. Inoltre, queste relazioni cozzano con la transizione verso fonti rinnovabili, visto che in questo momento storico la priorità occidentale è tornata ad essere la sicurezza delle forniture indebolite dalla nuova invasione russa a danno dell’Ucraina. “E attenzione a non confondere il Piano Mattei con le esportazioni storiche dell’Italia, che fondano la nostra economia”, avverte ancora Touadi: oltre alla gestione delle materie prime si dovrà implementare uno sviluppo formativo.

TURCHIA NEW ENTRY FRA RUSSIA E CINA

Mentre il nostro Paese prova ad occupare uno spazio d’interesse, però, in tanti angoli del continente africano dominano Russia, Cina e Turchia con una presenza distinta ma sempre più influente. “Dalla caduta del muro di Berlino si è vissuta la cosiddetta solitudine geopolitica africana”, ricorda Touadi. “Finita la Guerra fredda, l’Europa ha pensato erroneamente di abbandonare l’Africa. Ma in geopolitica il vuoto non esiste ed è stato colmato da due potenze che hanno rinnovato la loro presenza nel continente”. Una presenza non più ideologica come era quella della vecchia Unione Sovietica ma economica, di estrazioni minerarie, securitaria. Dal 2014 in poi è aumentata l’estrazione di oro nei Paesi del Centro Africa e si è sedimentato il commercio di armi russe. Quanto alla Cina, ricorda Touadi, “oggi è il primo partner commerciale. Dal lato dei Paesi africani di buono c’è che si è sviluppato un multi-allineamento funzionale, contrariamente al tentativo di non schierarsi in nessuno dei due blocchi del Novecento”. Russia, Cina ma anche Turchia operano senza condizionali politiche, civili, economiche. Prima, invece, vigevano diktat del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. “Oggi i Paesi africani si mettono in gioco di volta in volta”.

Nelle ore in cui stiamo conversando, Touadi ricorda che a Pechino è in corso il Forum Cina-Africa, “anche se ci sono tutti i Paesi – 53 su 54, con l’assenza di eSwatini – ma solo 20 capi di Stato, mentre prima accorrevano tutti, non solo i primi ministri”. Sul piatto, un maxi finanziamento del regime comunista di Xi Jinping da 51 miliardi di dollari in tre anni per costruire altre infrastrutture ma non solo. Le relazioni tra il Dragone e il continente africano sono ancora importanti ma la soglia degli investimenti non è più alta come nei primi decenni del Ventunesimo secolo (nel 2023 sono tornati a salire, triplicando i livelli dell’anno precedente con erogazioni pari a 4,61 miliardi di dollari per tredici prestiti a otto Paesi e due istituzioni finanziarie regionali). “L’economia cinese ha rallentato e questa è una prima causa. Oggi c’è poi il grande problema del debito”: molti Stati africani hanno sofferto questo sbilanciamento dei rapporti economici verso Pechino. Dal 2019, soprattutto, Paesi come Zambia, Ghana ed Etiopia hanno sofferto l’obbligo di ripagare i prestiti cinesi e hanno finito per andare in default.

“E poi sono cambiate le relazioni tra potenze: oltre a Russia e Cina c’è la Turchia ma penso anche al peso che nei prossimi anni sarà crescente di Paesi del Medio Oriente come Qatar, Arabia Saudita”, aggiunge Touadi. Dal loro punto di vista l’Africa è un bacino nel quale agire con nuovi investimenti diversi da quelli nei settori per loro tradizionali, petrolifero e del gas. In primis con grandi infrastrutture energetiche rinnovabili. La loro presenza sul territorio risale agli anni Settanta e Ottanta ma oggi la strategia è arricchita dalla volontà di contrastare gli interessi di Ankara e Teheran, puntando ad aumentare la loro influenza economica e securitaria-militare anzitutto nel Corno d’Africa e nella regione sub-sahariana. Ma è in crescita anche un fronte diplomatico delle potenze del Golfo in Africa.

DEMOCRATURE E CRISTALLIZZAZIONE DEL POTERE

Venendo alle questioni interne, “non sono d’accordo con chi definisce il momento attuale dell’Africa come seconda indipendenza”, chiarisce Touadi. “I processi di democratizzazione degli anni Novanta hanno dimostrato il loro corto respiro. Non basta reiterare il mimetismo istituzionale e costituzionale, peraltro già sperimentato nella fase delle indipendenze”. Insomma, non basta creare partiti politici né organizzare presunte elezioni se poi tutto il processo sfocia in una democratura o in un governo militare via golpe. Dagli anni Cinquanta a oggi ce ne sono stati più di duecento. Solo dal 2020 al 2023 sono stati otto e nel 2024 si sono trascinate ancora, tra le altre, le crisi del Sudan, Myanmar, Burkina Faso e Senegal. “Ha prevalso la cristallizzazione al potere ed è svanito il sogno popolare del nation bulding. Hanno vinto le élite e il loro monopolio estrattivo di materie prime vendute all’esterno”.

Da cosa ripartire, allora? “C’è una effervescenza popolare espressa dai giovani e dalle donne che manifestano”. Gli esempi più recenti sono l’Uganda, il Kenya e la Nigeria. “Questi movimenti andranno crescendo”, scommette Touadi. Giovani e donne vogliono una nuova classe politica che tenga conto delle loro istanze. Anche da qui dovremmo riflettere sul Piano Mattei: quanto può attecchire, quali reazioni può generare e, soprattutto, cosa serve agli africani? “Lo stallo africano si legge poi anche in termini economici, visto che a farla da padrone è ancora un sistema produttivo basato sulle estrazioni di materie prime che ha impedito di fatto la creazione di una economia locale, di una occupazione”. Ciò a fronte di una demografia che Touadi definisce correttamente come “vivace”: 15 milioni di giovani che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro.

L’addio all’Occidente passa poi da nuovi progetti economico-monetari. “Molti Paesi africani vogliono entrare nei Brics – l’alleanza anti-Usa e anti-Ue composta originariamente da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica e attualmente allargata anche a Etiopia, Egitto, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti – e tra le sfide di questa alleanza c’è la de-dollarizzazione”. I Paesi che oggi hanno adottato una moneta locale conoscono problemi di inflazione e questo grava sui più poveri. “La fine del Franco Cfa è inevitabile e direi anche doverosa ma va affrontata con razionalità”. Un buon modo per farlo è legandosi all’oro così da creare riserve di garanzia. “Ma attualmente molti Paesi stanno lasciando le miniere (il Ghana è tra i principali bacini: i ricavi dalla produzione sono stati pari a 7,6 miliardi di dollari solo nel 2023, il 45% dei ricavi da export del Paese) al gruppo Wagner”, i contractors privati russi che dopo la morte del leader Evgenij Prigožin ha cambiato nome in Africa Corps. Secondo il rapporto Blood Gold, il contingente militare genera 100 milioni di dollari al mese dal commercio illegale in Rca (Repubblica centroafricana), Sudan e Mali. Da lì viene esportato via Emirati Arabi Uniti in Russia e non è così assurdo pensare che costituisca un importante portafoglio per sostenere la guerra di Putin all’Ucraina. A settembre, intanto, il Fronte di liberazione del Niger ha avviato alcuni tentativi di alleanza con i Tuareg malesi per contrastare proprio la presenza russa nel Sahel.

L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA

Infine, il fattore che tutto raccoglie, riguardo all’Africa, è quello degli sviluppi della popolazione continentale. Molte stime prevedono il superamento dei 4 miliardi di abitanti entro il 2100 e già al 2050 il continente rappresenterà più del 25% della popolazione mondiale grazie a 2,1 miliardi di abitanti e una età media Under 25. “Bisogna ripartire dalla scuola, dall’educazione. I programmi del Fmi e della Banca mondiale che invitavano a ridurre la spesa sociale hanno distrutto i piani di tanti Paesi africani”, conclude Touadi. Servono investimenti sia nell’istruzione base che in quella tecnica-professionale. “L’agricoltura, ad esempio, è uno dei settori chiave per il quale deve passare il rilancio africano sia in termini occupazionali che produttivi”. E ambientali, aggiungiamo, viste le enormi conseguenze che il cambiamento climatico porta nei Paesi del continente: solo dal 2009 al 2018, ha scritto Earth’s Future, almeno 1,6 milioni di persone sono emigrate a causa della siccità.

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Alcune recenti stime della Banca africana per lo sviluppo rilevano che il mercato alimentare e agricolo dell’Africa potrebbe passare dagli attuali 280 miliardi di dollari all’anno ai mille miliardi di dollari entro la fine del decennio. Per capire, in Africa c’è il 60% della terra arabile incolta nel mondo e l’intero settore agricolo rappresenta il 35% del Pil. “Ma al centro dovrà esserci la valorizzazione di quello che gli economisti chiamano capitale umano”. Istruzione e inclusione delle donne: la ricetta è facile, la riuscita rimane una sfida.

(Intervista pubblicata sulla rivista Start Magazine)

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