Beko deserto «bianco», Marche senza lavoro

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Mi viene in mente “La dismissione” di Ermanno Rea parlando stamattina con gli operai della Beko, lo stabilimento dove hanno passato gli anni migliori della loro vita ad assemblare lavatrici, elettrodomestici che hanno fatto il giro del mondo. Qui a Comunanza, nel cuore antico dei Monti Sibillini una delle zone colpite dal terremoto del centro Italia del 2016, la furia tellurica non ha solo sventrato le case dentro il cratere ma ha provocato uno spopolamento che nelle aree interne era già iniziato molto prima.

PERCHÉ VIENE IN MENTE quell’operaio, Vincenzo Bonocore, entrato all’Ilva di Bagnoli manovale diventato nel tempo tecnico specializzato delle Colate continue? Perché con quell’opera e quel titolo lo scrittore napoletano coglieva il disfacimento di un tessuto industriale quando, caduto il muro di Berlino, il sistema capitalistico diventava finanziario e globale, mentre quello straccione italiano e la nostra miope politica parlamentare erano incapaci di immaginare un nuovo modo di produrre nei vecchi distretti industriali. Bonocore si occupa, infatti, di smantellare l’acciaieria prima che vengano a prendersela i nuovi proprietari cinesi. È ormai un ventennio che gli operai devono lottare non più solo per migliorare le condizioni di lavoro, ma soprattutto per non perderlo.

OPERAI SENZA PIÙ CLASSE e senza partito soli a resistere con quello che resta della forza dei sindacati costretti a gestire le crisi, le casse integrazioni, gli esuberi, la precarietà. La fabbrica per quelli di Comunanza è sempre “giù da Merloni”, il cognome dei vecchi proprietari di Ariston, la nostalgia di un capitalismo famigliare sostituito prima dalla multinazionale americana Whirlpool, e adesso dai turchi di Beko, che acquistata la fabbrica ad aprile già a novembre hanno annunciato la chiusura entro il 2025, mettendo a rischio l’esistenza di 332 lavoratori (1935 esuberi in Italia su 4400 occupati), provocando una reazione di mobilitazioni e proteste. Questo hanno deciso a pochi giorni dalle feste di Natale i cinici manager nella sede di Istanbul che nemmeno conoscono questo stabilimento sorto sotto le montagne oggi incappucciate di neve dei Sibillini, i padroni del mercato globale e le volponiane “mosche del capitale” che hanno a cuore solo i numeri, i profitti, i titoli azionari, e in questo caso la «concorrenza asiatica».

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Quando è arrivata la notizia della chiusura stavo lavorando: ho avuto un blocco totale del corpo, non riuscivo a muovermi, mi è crollato il mondo addossoItalo, operaio da 30 anni

ALLORA TAGLIANO, delocalizzano, cancellano uomini, tarmano le loro vite. Come quella di Italo Lacché, calvo, viso ovale e aria mite, addetto alla manutenzione da trent’anni, «quando è arrivata la notizia stavo lavorando» racconta, «mi sono bloccato, un blocco totale del corpo, non riuscivo più a muovermi, mi è crollato il mondo addosso, anche mia moglie lavora per l’indotto, se chiudiamo verrà a mancare pure il suo stipendio» dice come a sé stesso, «ho un ragazzino di dieci anni, un mutuo da estinguere che pesa, 551 euro al mese, se non paghi ti sfrattano, non hai più un tetto sopra la testa, quello è stato il mio primo pensiero».

DOPO PER LUI NIENTE È STATO più come prima, «è un pensiero che mi accompagna tutto il giorno, anche la notte, le prime due non sono riuscito a chiudere occhio, avevo paura del futuro, che è solo il prossimo anno, e per andare in pensione ne mancano ancora 12. Come faremo? Facile, loro fanno una X sopra e ti cancellano» dice con amarezza.
Ha pensato anche di partire, perché in questa zona non c’è lavoro, dovrebbe spostarsi, «oltrepassare Bologna, al nord posti ancora se ne trovano, se la Beko chiuderà saremo costretti ad andarcene, questo territorio si spopolerà ancora di più»; per un nefasto effetto domino ne risentiranno anche le vendite dei supermercati, quelle dei ristoranti, delle cartolibrerie, forse aumenteranno i consumi degli psicofarmaci, le depressioni, il gioco d’azzardo sulle slot machine, la dispersione scolastica, i suicidi.

Stefano Di Claudio

Stefano Di Claudio, magro e biondo, gli occhi azzurri, anche lui manutentore meccanico, lavora nella fabbrica da 21 anni, «sono nato qui, è la mia terra, non voglio lasciare questi luoghi dove c’è pace, silenzio, dove c’è bellezza, vado per boschi con la mountain bike, vivo benissimo qui, ho comprato una casa a Comunanza con un mutuo di vent’anni, ne sono trascorsi solo dodici, quando è arrivato il messaggio dei sindacati con la notizia sul telefono mi sono allarmato, e adesso che faccio?».

Ha pensato anche lui di trasferirsi, perché «la parola chiusura non era stata mai nominata, è una parola che fa paura, di crisi ne abbiamo affrontate diverse, ma questa è la prima volta che si nomina». Sostiene che tutte le volte che è stata pronunciata per altri siti industriali, poi li hanno chiusi davvero. «Qui ci ha lavorato mio padre, ce la sentiamo nostra questa fabbrica, abbiamo dato tutto, sono usciti da quello stabilimento prodotti eccellenti» dice con fierezza, «gioielli come la Margherita e la Acqualtis», precisa, «noi abbiamo dato tutto, quando ci è stato chiesto di dare il massimo non ci siamo mai tirati indietro, lavorando anche il sabato, abbiamo sempre detto sì. Questi in sette mesi vengono qua dalla Turchia, comprano, dichiarano che i conti non tornano. Ditelo allora che siete venuti per rubare i marchi, le nostre conoscenze e portare tutto in Romania o in Egitto!», dice con rabbia, alla fine.

PAOLO MARINI, ventisette anni di lavoro e venti come Rsu della Fiom Cgil, conosce tutta la storia della fabbrica, «dalla multinazionale tascabile dei Merloni fino alla Whirpool», dice, «ho vissuto grandi momenti di crescita, facevamo 7.000 macchine al giorno, quando entravi in fabbrica trovavi una famiglia, ci conosciamo tutti, venivano lavoratori da Bari, Napoli, da tutto l’entroterra ascolano, fermano e maceratese, ma dopo la fusione Beko-Whirlpool ci siamo accorti che qualcosa non quadrava, l’azienda incalzata dai sindacati non ha mai presentato un piano industriale di rilancio e la produzione si è ridotta a 550».

Lina Censori

«OGGI LA SITUAZIONE economica delle famiglie è già difficile, facciamo cassa integrazione dal 2009, con stipendi ridotti, come rappresentante sindacale conosco le fragilità delle persone, famiglie con disabili, giovani universitari che studiano, gente che non riesce a sbarcare il lunario». I suoi figli ancora vanno a scuola, sua moglie lavora, se la fabbrica chiude si rimetterà in gioco nella piccola attività del padre, «ma io non mi sto battendo solo per me, la chiusura significherebbe desertificare il territorio, già molti lavoratori dopo il sisma si sono spostati sulla costa». Reindustrializzare qui secondo lui sarebbe difficilissimo e costoso, «dopo cinquant’anni di stabilimento non è stata creata neanche una viabilità, chi viene a investire qui?».
Lina Censori, viso espressivo e capelli biondi, è la moglie di un operaio e lavora nello studio di commercialista del padre, «dopo trent’anni di fabbrica se a uno come mio marito gli togli la stabilità, gli togli il lavoro, in una zona già martoriata dal terremoto e in una fabbrica dove l’età media è 55 anni, comincia l’ansia. La percepisco in molti nel paese, l’agitazione, la paura, esci a sessant’anni dopo 40 di lavoro da operaio, dove vai nei sette anni che ti restano per la pensione?».

Però per la prima volta ha sentito le istituzioni vicine, i sindaci, gli amministratori, compreso il governatore marchigiano di Fratelli d’Italia, il partito patriottico localmente e amico dei neoliberisti Elon Mask e Javier Milei globalmente. «Speriamo», dice, «anche col terremoto ci dicevano non sarete soli, ma i cantieri sono ancora aperti», e molti si portano il disagio pure dentro casa, «anche i bambini lo sentono», i suoi sono andati al corteo insieme al padre, «non gli avevano dato ancora neanche la divisa Beko, sembra che questi sono venuti qui per tagliarci la testa», dice alla fine con durezza.



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