Giubileo per la giustizia. Papa Francesco e le carceri: quell’urgenza non più rinviabile

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Papa Francesco va nel carcere romano di Rebibbia e non delude. Quando parla di politica internazionale zoppica, a volte vacilla. Quando parla di giustizia no, la forza del suo magistero si vede e si sente tutta. Tira fuori la rabbia dell’ingiustizia sociale – suo motore da sempre – e la unisce a quel dovere della speranza che è insito nella sua natura di prete di strada, di sacerdote di frontiera. E proprio da quelle sue radici di pastorale tra gli ultimi, di testimone del Vangelo tra i poveri, Francesco trae l’energia per lottare contro i mulini a vento del sistema giudiziario italiano. Che culmina nei dimenticatoi disumani delle carceri, in quei gironi danteschi dove anime dannate si avvitano e si contorcono senza sapere se mai, per loro, ci sarà giustizia. 19mila detenuti stranieri, 17mila tossicodipendenti, più di 4mila malati di mente in carcere. In quello che – per chi si occupa di diritti – è senz’altro l’anno nero del carcere, l’iniziativa del Pontefice è senza precedenti.

Le pene

Sua Santità apre la seconda Porta Santa del Giubileo nel carcere di Rebibbia, tra quegli ultimi, dimenticati e dannati (per i tribunali penali, non certo per la giustizia divina) che compongono l’umanità dolente alla quale il Santo Padre si avvicina con maggior trasporto. «Questa di Rebibbia oggi può dirsi una Basilica», dice il Papa al termine della cerimonia. Come a mettere la sua mano, e suo tramite quella di Dio, sulla testa degli ultimi. Dei dimenticati. La giustizia penale italiana condanna ogni anno – in media – mille innocenti alla pena detentiva. Quando non in un istituto di pena, ristretti al domicilio. C’è chi subisce un ingiusto processo – perché proprio non andava giudicato – e chi nel processo subisce un’ingiusta condanna, perché poi si scoprirà innocente. C’è chi torna in carcere perché un domicilio fisso non lo ha, e quindi non può andare ai domiciliari, e chi subisce la carcerazione preventiva ancora prima di essere processato e giudicato: sono migliaia, ogni anno, i casi inaccettabili per lo Stato di diritto.

La profonda umanità

Francesco a Rebibbia lo sa e lo dice. Mette il dito nella piaga. E si avvicina a ciascuno dei detenuti con una umanità profonda, che colpisce anche i cuori più distanti. Lui, solitamente restio al bacio dell’anello, dai detenuti si lascia stringere le mani, si lascia avvicinare e a ciascuno dedica un gesto, una parola, un cenno di rispetto. Compie quello che il radicale Riccardo Magi, laicissimo leader di +Europa, definisce «un gesto molto più che simbolico e che, oltre al significato religioso legato alla celebrazione dell’avvio del Giubileo, è carico di un profondo significato civile e costituzionale che dovrebbe far riflettere tutti sulla condizione inumana e illegale delle carceri italiane». Non si tratta del beau geste di Natale ma di una presa di posizione solida, ribadita da Giovanni Paolo II a Papa Francesco con la stessa indomita passione, con l’intenzione profonda di non lasciare l’imbarazzante gestione del pianeta carcerario così com’è.

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I cuori di chi sta fuori

Il senatore Filippo Sensi, Pd, lo grida forte: «Speriamo che la porta spalancata dal Papa oggi a Rebibbia apra i cuori non tanto di chi è dentro, ma di chi sta fuori, di chi decide chi è fuori e chi è dentro. I suicidi in carcere portano il nome e il cognome di chi ne porta responsabilità». Antonio Tajani, leader di Forza Italia e vicepresidente del Consiglio, la mette giù così: «La decisione di Papa Francesco di aprire la porta Santa a Rebibbia impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri. Che fare? Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti della Penitenziaria. La pena è privazione della libertà, non della dignità».

L’urgenza non più rinviabile è chiara: adottare subito misure che riportino i numeri a un livello, se non ideale, quantomeno legale: amnistia, numero chiuso, depenalizzazioni. E parallelamente, adottare misure che realizzino una riforma strutturale delle case di detenzione.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

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