Altre otto ore di sciopero, entro il 15 di gennaio e in giornate definite dalle articolazioni territoriali dei sindacati. Da settimane manifestazioni, blocco della produzione e dei servizi, volantinaggi hanno interessato molti capoluoghi di provincia; dopo lo stop alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici (scaduto il 30 giugno 2024), la tensione continua a crescere. Le posizioni dei sindacati di categoria (Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil) e dell’associazione degli industriali di settore (Federmeccanica) appaiono inconciliabili perché riflettono due visioni profondamente divergenti del rapporto tra retribuzione, produttività e sostenibilità economica.
I primi spingono per un riconoscimento salariale certo e tangibile, che compensi il potere d’acquisto eroso dall’inflazione e redistribuisca parte della ricchezza prodotta dalle aziende. In particolare, secondo una recente indagine della Fiom, nel 2023 le imprese dell’industria metalmeccanica italiana hanno registrato utili complessivi superiori a 30 miliardi di euro; ma questa crescita dei profitti non è stata accompagnata, per la Fiom, da incrementi proporzionali degli stipendi dei lavoratori. Federmeccanica, invece, pone l’accento sulla necessità di mantenere la competitività e la sostenibilità delle aziende, soprattutto in un contesto economico incerto.
Come si traducono queste visioni divergenti nelle proposte che i sindacati e Federmeccanica hanno studiato per il rinnovo del Ccnl? Ad esempio, i sindacati chiedono 280 euro lordi mensili per i lavoratori del quinto livello, puntando su aumenti uniformi; mentre Federmeccanica ritiene la richiesta insostenibile e propone di legare gli adeguamenti all’indice Ipca e ai risultati economici. Ancora, i sindacati accettano il welfare solo come integrazione, non come alternativa agli aumenti strutturali, mentre Federmeccanica propone premi fino a 700 euro lordi annuali legati alla performance aziendale. Inoltre, i primi spingono per le 35 ore settimanali senza tagli salariali, ma Federmeccanica considera la proposta irrealistica, puntando invece sulla flessibilità già prevista nei contratti aziendali.
Infine, i sindacati chiedono regole rigide per limitare l’uso dei contratti precari, mentre Federmeccanica difende la flessibilità come essenziale per rispondere alle dinamiche di mercato. Siamo agli antipodi.
Trovare un accordo richiederà non solo compromessi tecnici, ma anche un ripensamento dei valori e delle priorità di entrambe le parti. Ne abbiamo parlato con il responsabile dell’ufficio sindacale della Fiom Cgil Mirco Rota e con Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica.
Aumenti salariali: un confronto tra redistribuzione e sostenibilità economica
Come si diceva, la richiesta da parte dei sindacati di un aumento certo lordo in busta paga si giustifica, secondo loro, sia come compensazione dell’inflazione presente e futura sia come redistribuzione dei risultati economici ottenuti dalle imprese del settore. In particolare, Mirco Rota della Fiom la vede così: «Le aziende metalmeccaniche hanno registrato profitti significativi, e una parte di questi deve tornare ai lavoratori. Non possiamo ignorare che le retribuzioni italiane sono tra le più basse in Europa. Non voglio dire che siamo gli ultimi, ma certamente non siamo ai vertici». La Fiom ha realizzato uno studio secondo il quale, peraltro, il valore aggiunto per ogni ora lavorata in Italia è superiore alla media europea nella maggior parte dei comparti del settore, un dato che evidenzia la competitività produttiva del Paese.
Sul fronte opposto, come si accennava, Federmeccanica rigetta questa proposta. Anzi, per Stefano Franchi il settore ha già fatto uno sforzo importante negli ultimi anni: «Dal 2021 a oggi, i lavoratori metalmeccanici hanno beneficiato di un incremento complessivo di 310 euro circa al livello C3 (ex quinto livello). Siamo l’unico settore che ha garantito aumenti così consistenti durante una fase di alta inflazione».
Per Federmeccanica, dunque, gli incrementi salariali devono continuare a seguire due direttrici fondamentali: l’andamento dell’inflazione, calcolata attraverso il citato indice Ipca (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato, una misura statistica utilizzata per calcolare l’andamento dei prezzi al consumo, ovvero il tasso di inflazione, in modo uniforme tra i paesi dell’Unione Europea. È stato sviluppato da Eurostat, l’ufficio statistico dell’UE; Ndr) depurato dai costi energetici importati, e i risultati economici aziendali. «Il nostro approccio – aggiunge Stefano Franchi – garantisce incrementi equi e legati alla profittabilità delle imprese».
Welfare aziendale e premi di risultato: il confronto tra redistribuzione sindacale e flessibilità imprenditoriale
I sindacati accettano il welfare aziendale, ma con un limite invalicabile: non può sostituire gli aumenti salariali strutturali. «Non rifiutiamo il welfare – spiega Mirco Rota – ma non possiamo accettare che venga usato come alternativa agli aumenti salariali. Gli stipendi devono crescere in modo stabile e certo, senza essere barattati con soluzioni che, per quanto utili, non garantiscono sicurezza economica nel lungo periodo».
Per Mirco Rota legare una parte delle retribuzioni ai premi di risultato è complicato e ingiusto, soprattutto per i lavoratori delle piccole imprese. Questo perché molte di queste aziende non hanno una contrattazione aziendale attiva, cioè non ci sono accordi specifici tra sindacati e datori di lavoro, e quindi manca un sistema per negoziare o verificare come e quando i premi dovrebbero essere distribuiti.
Inoltre, Mirco Rota sottolinea che è praticamente impossibile per il sindacato controllare i bilanci di tutte le aziende per accertarsi che rispettino i criteri per erogare questi premi. Questo rischio di mancanza di trasparenza potrebbe creare disuguaglianze tra i lavoratori: alcuni potrebbero ottenere i premi, mentre altri rimarrebbero esclusi, senza garanzie concrete sui loro stipendi. In sostanza, Fiom teme che un sistema di questo tipo possa penalizzare i lavoratori più vulnerabili, soprattutto in contesti meno organizzati.
Federmeccanica, invece, propone un modello più flessibile, in cui il welfare aziendale e i premi di risultato svolgano un ruolo chiave nella redistribuzione della ricchezza, soprattutto in quelle imprese che non possono permettersi incrementi salariali fissi e generalizzati.
Una delle novità principali riguarda i premi di risultato, pensati per premiare i lavoratori delle aziende che registrano una buona performance economica. Per le imprese con un margine operativo lordo (Mol) superiore al 10% e in crescita rispetto all’anno precedente, è previsto il citato premio annuo di 700 euro lordi per ogni dipendente. Per quelle realtà che già riconoscono premi individuali, l’importo sarà ridotto a 350 euro lordi. Questa misura, operativa a partire dal 2026, punta a legare i benefici per i lavoratori ai risultati effettivi delle imprese, promuovendo una redistribuzione sostenibile della ricchezza.
Un’altra proposta è l’introduzione dell’Elemento di continuità professionale (Ecp), che sostituirà il sistema degli aumenti periodici di anzianità (Apa). Questo nuovo meccanismo prevede l’anticipazione biennale dei benefit, consentendo ai lavoratori di ricevere prima le somme maturate. Per alcune categorie, come il livello medio (C3), è previsto un aumento biennale aggiuntivo di 520 euro lordi, garantendo così un riconoscimento concreto per la continuità lavorativa. L’obiettivo è valorizzare il percorso professionale dei dipendenti in modo più immediato e tangibile.
Federmeccanica propone anche un potenziamento dei flexible benefits, strumenti utili per coprire spese quotidiane e familiari. L’importo, attualmente fissato a 200 euro annuali, sarà aumentato gradualmente fino a raggiungere 400 euro l’anno. Questi benefit potranno essere utilizzati per spese essenziali come le rette degli asili nido, i trasporti pubblici e l’acquisto di libri di testo. L’intento è fornire un supporto concreto ai lavoratori e alle loro famiglie, favorendo una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e privata.
Infine, un’altra proposta riguarda il miglioramento delle coperture di welfare sanitario, con un focus sui lavoratori a basso reddito. Per chi guadagna meno di 35mila euro annui, saranno ridotte le franchigie e gli scoperti relativi alle spese odontoiatriche, estendendo i benefici anche ai familiari. Inoltre, dal 2026 sarà introdotta una copertura assicurativa gratuita per la non autosufficienza, con una rendita mensile netta di 600 euro, destinata a chi dovesse trovarsi in condizioni di grave difficoltà fisica o assistenziale. Questa misura rappresenta un importante passo avanti nella protezione sociale, offrendo sicurezza a lungo termine anche nelle situazioni più delicate.
Stefano Franchi spiega la posizione degli industriali: «Dove ci sono profitti, deve esserci redistribuzione. Ma questa redistribuzione deve essere sostenibile quindi va collegata alla situazione economica dell’azienda». Tuttavia, Stefano Franchi sottolinea che «non si può redistribuire ciò che non esiste. Se un’azienda non ha margini sufficienti, non è realistico pretendere aumenti fissi che metterebbero a rischio la sua stessa sopravvivenza». Quanto all’obiezione sulla visibilità dei bilanci, per Stefano Franchi «quelli delle imprese sono pubblici e accessibili. Non c’è ragione per cui questi dati non possano essere utilizzati come riferimento. È una questione di volontà».
La sfida della progressiva riduzione dell’orario a 35 ore: ambizioni sindacali e resistenze industriali a confronto
Quanto alle 35 ore, Fiom considera questa misura una risposta necessaria e inevitabile alle sfide poste dalla transizione industriale e dall’automazione, processi che secondo la sigla sindacale stanno riducendo il numero di ore lavorative richieste nelle aziende. «La riduzione dell’orario è quasi obbligatoria – afferma Mirco Rota –. Serve per difendere l’occupazione e redistribuire il lavoro tra più persone. Con l’automazione e la riconversione industriale, i lavoratori rischiano di essere sempre più esclusi dai processi produttivi. La nostra proposta mira a proteggere i posti di lavoro e a garantire una migliore qualità della vita».
Secondo Fiom, esistono già esempi concreti di applicazione di orari ridotti. «Grazie alla contrattazione aziendale – sottolinea Mirco Rota – molte aziende hanno già raggiunto o superato il traguardo delle 35 ore. Questo accade soprattutto dove sono stati introdotti turni a ciclo continuo, con lavorazioni che proseguono anche nei fine settimana o di notte. In questi casi, la riduzione dell’orario è stata contrattata in cambio di maggiore flessibilità da parte dei lavoratori».
Di fronte a questa proposta, Federmeccanica si mostra scettica e sottolinea le difficoltà pratiche e le implicazioni economiche di una riduzione generalizzata dell’orario. Per Stefano Franchi la misura, così posta, è «non praticabile». È vero che le 35 ore settimanali non sono un obiettivo irraggiungibile, ma una realtà che alcune aziende hanno già adottato in casi particolari: si tratta di quei contesti in cui, per ragioni organizzative o tecnologiche, è stato necessario riorganizzare i turni di lavoro, come nei cicli produttivi continui o nelle situazioni in cui l’automazione ha cambiato il ritmo delle attività.
Ma per Federmeccanica una riduzione oraria applicata indistintamente a tutte le imprese, non è sostenibile per il sistema produttivo. «Non è necessario introdurre nuove regole – afferma Stefano Franchi –. Già oggi, le aziende possono rimodulare l’orario attraverso sperimentazioni e misure specifiche. La priorità dovrebbe essere sfruttare al meglio le opzioni già disponibili, anziché imporre cambiamenti che possono compromettere la competitività delle imprese».
Federmeccanica propone piuttosto di definire modelli e linee guida utilizzabili dalle aziende per sperimentare rimodulazioni dell’orario di lavoro volte ad aumentare la produttività con un equilibrio tra lavoro e vita privata. E sottolinea inoltre che una forma di riduzione di orario già esiste grazie ai Permessi Annui Retribuiti che in moltissimi casi non vengono utilizzati dalle persone. «Abbiamo proposto di introdurre meccanismi che garantiscano la piena fruizione di questi strumenti per assolvere la propria funzione originaria, ridurre l’orario di lavoro» – dichiara Stefano Franchi.
Precariato: tra esigenze di stabilità e richieste di flessibilità, la contrapposizione sulle regole contrattuali
Come si accennava, i sindacati chiedono che vengano introdotti limiti chiari e stringenti all’uso dei contratti precari, sia in termini di percentuale massima sul totale dei lavoratori in azienda, sia in termini di durata temporale. In particolare, per Mirco Rota «se un’azienda ha un carico di lavoro stabile, deve stabilizzare i lavoratori. Non è accettabile che contratti precari vengano rinnovati all’infinito, senza offrire alcuna sicurezza occupazionale».
Fiom sottolinea che, in molti casi, i contratti a termine non rispecchiano effettive esigenze temporanee, ma sono utilizzati anche per mansioni strutturali e continuative. Questo, secondo il sindacato, non solo penalizza i lavoratori, ma genera anche un’instabilità sociale che si riflette negativamente sull’intero sistema economico.
Federmeccanica, invece, difende la necessità di mantenere un’elevata flessibilità contrattuale, considerando i contratti a termine uno strumento fondamentale per affrontare le oscillazioni del mercato e le specificità delle diverse realtà produttive. Per Federmeccanica, regole troppo rigide a livello nazionale rischiano di essere inapplicabili per molte aziende, che si trovano a operare in contesti di forte incertezza economica e produttiva.
Il nodo centrale dello scontro riguarda il livello a cui devono essere stabilite le regole. Fiom insiste sulla necessità di norme nazionali che valgano per tutte le aziende e garantiscano una tutela uniforme per i lavoratori. Federmeccanica, invece, ritiene che le decisioni sul precariato debbano essere prese a livello aziendale, attraverso accordi specifici che tengano conto delle particolari esigenze di ogni impresa.
(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 20 dicembre)
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