Opinioni | I due scogli per l’asse Meloni-Trump

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È diffusa l’opinione, tra osservatori americani o europei, che l’Italia sia destinata ad avere un felice rapporto con il Trump Due. Giorgia Meloni viene annoverata nel trio dei leader «vincitori» dopo la rielezione del repubblicano, insieme con il presidente polacco e il premier ungherese. Di questi Paesi l’Italia è il più grande, l’unico fondatore dell’Unione euroxpea, ed è la seconda potenza manifatturiera del continente. Tutte ragioni per avere una posizione privilegiata nel nuovo capitolo delle relazioni che si aprirà dopo l’Inauguration Day del 20 gennaio. Partendo da aspettative elevate c’è il rischio di delusioni. Il 2025 presenterà dei test ardui per l’asse Trump-Meloni. L’affinità politica e culturale è evidente. Così come la simpatia personale, che coinvolge pure Elon Musk. Questa base di partenza basterà ad appianare i problemi bilaterali? Trump secondo le anticipazioni si presenterà al summit Nato a giugno chiedendo che i Paesi membri spendano il 5% del Pil per la difesa. Dal suo entourage qualcuno suggerisce che alla fine si accontenterebbe del 3,5%, la quota che spendono gli Stati Uniti. Ma l’Italia è tra gli ultimi, non ha neppure avvicinato il 2% (e bisogna domandarsi perché). Sul fronte economico Trump chiede all’Europa un aggiustamento degli squilibri commerciali. L’Italia vanta uno dei più grossi attivi nell’interscambio con gli Stati Uniti. Dovrebbe importare più gas naturale, suggerisce Trump. Anche questo non è semplice.

La questione militare è la più spinosa. Scelte onerose si impongono a prescindere da Trump. Barack Obama cercò di svegliare gli europei dal letargo geopolitico, di scuoterli dall’illusione di essere la prima superpotenza erbivora della storia. Nel 2012 Obama convinse i paesi Nato a impegnarsi per dedicare alla difesa almeno il 2% del Pil. Sono passati dodici anni, due invasioni dell’Ucraina, la nascita di un asse Russia-Cina-Iran-Corea del Nord con effetti destabilizzanti in Medio Oriente. Per Putin la sfera d’influenza sovietica va ricostruita, a cominciare dalla zona del Baltico. Ma non si limita a quello. La Russia ha perso (forse) una base in Siria ma rafforza la presenza militare in Libia, ancora più vicino all’Italia. Non ha mai smesso di interferire nei Balcani.
La Polonia da queste evoluzioni ha tratto conseguenze: il suo bilancio per la difesa supera il 4% del Pil. Quello italiano non arriva all’1,5%. Questa inadempienza non è cessata sotto il governo Meloni. Perché? La Polonia ha un’economia molto più povera di quella italiana. Ha una popolazione cattolica che ascolta con rispetto i messaggi pacifisti di papa Francesco. Però Varsavia ricorda gli ammonimenti di un Papa polacco che visse sotto il totalitarismo sovietico e non sottovalutò l’imperialismo russo. La Polonia capisce che la pace è un bene da preservare dissuadendo le aggressioni. Lo stesso pensano due nazioni fino a ieri neutrali, Finlandia e Svezia: erano già sopra il 2% di spese militari prima di entrare nella Nato, praticavano un «pacifismo armato». In Italia il governo Meloni non ha cominciato un’operazione di pedagogia dell’opinione pubblica. Rischia un brusco risveglio con Trump: quest’ultimo forse non vorrà imporre all’Ucraina una capitolazione di fronte a Putin, ma di sicuro rifiuterà di impegnare truppe americane per garantire l’eventuale cessate il fuoco. Anche questa non è una novità: pure Biden fu tassativo nell’escludere l’invio di soldati Usa. In Europa si stimano ad almeno cinquantamila militari le forze da schierare per proteggere l’Ucraina da una terza invasione russa.




















































La questione dei macro-squilibri commerciali vede Trump in una posizione negoziale favorevole. L’America importa dall’Europa molto più di quanto vi esporta. In queste condizioni, una guerra dei dazi è asimmetrica: Washington infliggerebbe danni ben superiori a quelli che l’Europa può sperare di restituirle per ritorsione. Trump ha suggerito una via d’uscita, già anticipata dalla presidente della Bce Christine Lagarde: gli europei possono aumentare le proprie importazioni di gas naturale dagli Stati Uniti, ridurre così lo squilibrio. È una soluzione logica, corrisponde alla metamorfosi in atto dal 2022 nell’approvvigionamento del Vecchio continente: ha ridotto (ma non eliminato del tutto) gli acquisti di energie fossili dalla Russia, per non subire i ricatti di Putin. Ci sono margini per tagliare ancora gli acquisti da Mosca e aumentare quelli dagli Stati Uniti. Questi ultimi sono già diventati i principali fornitori di gas naturale liquefatto per scaldare le case degli europei e far funzionare le loro centrali elettriche (tra gli altri fornitori: Qatar, Algeria, Norvegia). Il gas è una tappa intermedia verso la sostenibilità perché genera CO2 in misura molto inferiore rispetto a carbone e petrolio. Però la produzione americana è in mano ad attori di mercato, i quali non sono per forza disponibili a un ulteriore boom di esportazioni verso l’Europa. L’aumento di estrazione ed esportazione incontra resistenze. Gli ambientalisti sono contrari. Alcune industrie americane vogliono che il gas rimanga a casa per tenere bassi i loro costi energetici. Per un salto nell’export occorrono investimenti in nuove infrastrutture di trasporto. Anche il riequilibrio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico non sarà un’operazione facile né indolore.
Pensare che il rapporto Trump-Meloni sarà idilliaco a prescindere è una scommessa. È possibile che Trump voglia fare sconti agli amici, ma non vanno sottovalutate la sua natura «transattiva» e la sua fretta di sbandierare vittorie a vantaggio dell’America.

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28 dicembre 2024



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