Com’era Torino 150 anni fa? Con la neve, un Carnevale come a Venezia e ispirata dalla moda francese

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di
Dario Basile

Pietro Baricco, intellettuale di fine Ottocento,nel suo libro «Torino» pubblicato nel 1869, non solo descrive la città ma racconta minuziosamente la vita, le usanze e le istituzioni della Torino postunitaria

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«Siede la città di Torino sulle sponde del Po non lungi dal luogo dove la Dora Riparia reca a questo fiume il tributo delle sue acque. A levante ha la collina ingemmata di ville, ammantata di fiori e popolata di piante, ed ha a mezzogiorno, a ponente ed a settentrione le Alpi lontane che incoronano il Piemonte». Così Pietro Baricco, noto intellettuale di fine Ottocento, inizia il suo libro «Torino» pubblicato nel 1869 dall’editore Paravia. Un’imponente opera di due volumi in cui l’autore non solo descrive la città ma racconta minuziosamente la vita, le usanze e le istituzioni della Torino postunitaria.
Sfogliare quelle pagine oramai ingiallite è come fare un tuffo nel passato e allora proviamo ad immergerci per le strade di quella Torino di centocinquant’anni fa per capire come è cambiata. 

Il primo cambiamento evidente è quello climatico. Oggi la neve nel capoluogo piemontese è rara ma non così era in passato. I giorni con i fiocchi bianchi nel 1867 sono stati nove e undici nell’anno successivo. La dimensione della città era molto ridotta rispetto a quella attuale, si contavano solo 195 mila abitanti. È un periodo di transizione, sono passati pochi anni dal trasferimento della capitale del Regno d’Italia dalla città piemontese a Firenze. E Torino sta provando a reinventarsi. Stanno nascendo nuove imprese come birrifici, fabbriche di candele, mobili e produzione di pianoforti. Nell’ultimo ventennio l’istruzione popolare si è molto diffusa eppure, alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, il 34% della popolazione non sa ancora né leggere e né scrivere, mentre il 4% sa solo leggere. In casa e tra gli amici si parla il dialetto piemontese, ma l’italiano è ampiamente conosciuto così come lo è il francese. 




















































Baricco descrive quelli che a suo avviso sono tratti tipici della «torinesità». «I torinesi hanno indole mite, ingegno svegliato, carattere franco: sono piacevoli nel conversare, nel trattare cortesi, nell’operare pazienti e fermi nei loro propositi. Non si lasciano trasportare dalla fantasia, non amano i subiti mutamenti, non si lasciano padroneggiare dal febbrile entusiasmo». Evidentemente il proverbiale esageroma nen, marchio di fabbrica dell’understatement torinese, era già molto diffuso. I torinesi dell’epoca vestono bene, gli abiti ricercati si ispirano alla moda della vicina Francia. Durante i giorni di festa si è soliti svolgere scampagnate nei borghi vicini alla città o tra i vigneti della collina. Anche le osterie fuori porta dove «si fa baldoria» sono molto frequentate. 

La passione per gli spettacoli drammatici e lirici è diffusa in tutte le classi sociali così come il fumo del sigaro e della pipa. Degni di nota sono i festeggiamenti per il Carnevale. «Gli ultimi giorni di Carnevale da alcuni anni sono in Torino oltremodo rumorosi e giulivi, perché vi si celebrano feste simili a quelle, per cui Venezia si rese famosa». Alla Società di Gianduia è affidato il compito di organizzare gli eventi e così in quei giorni di festa Torino si trasforma. Si susseguono gran galà con lancio di coriandoli, splendidi balli, sfilate in maschera, carri allegorici, concerti e divertimenti popolari. Piazza Castello e via Po vengono addobbate e illuminate a festa e lì si tiene una grande fiera e un’esposizione di vini. In piazza Vittorio si monta un enorme palco dove va in scena «un’azione mimico-storico-fantastica con tanto sfarzo di addobbi e con tanta maestria di arte, che ne rimasero attonite le molte migliaia di spettatori». 

Lo sport è diffuso, in modo particolare il gioco delle bocce. Sulla riva sinistra del Po vi è una bellissima piscina galleggiante che può ospitare fino a cento bagnanti. Nel costo dell’ingresso, sessanta centesimi, sono inclusi la fornitura dei calzoni di tela (antenati dei costumi) e gli asciugamani.
Nel libro non manca un riferimento alla cucina torinese di fine Ottocento. Molto apprezzate sono le salse a base di tartufo bianco, una vera prelibatezza, così come gli agnolotti. In città ci sono diversi alberghi e, curiosità, offrono il servizio dei «servitori di piazza». Sono di fatto delle guide turistiche che accompagnano i forestieri nella visita della città. 

Uno sguardo, infine, ai riti religiosi. Al calare della sera poteva capitare di vedere una carrozza che procede lentamente con una torcia accesa fuori dallo sportello. All’interno c’è un bambino che ha appena ricevuto il battesimo nella vicina chiesa parrocchiale. Differenti erano anche i riti funebri. La salma viene portata in processione dalla casa del defunto alla chiesa e poi da questa al camposanto. Il corteo prevede un carro funebre, addobbato con più o meno eleganza, seguito dai preti, dai parenti e dai colleghi di mestiere che recitano a voce alta il Miserere. Questa cerimonia varia, naturalmente, a seconda del ceto sociale. Molto meno sontuoso è rito riservato ai più poveri, in quel caso una semplice bara è seguita da un gruppetto di mesti individui che reggono una torcia ingiallita. Se la morte, come recitava Totò, è una livella i riti funebri non lo sono affatto.


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