(di Avv. Umberto Lanzo)
Il Consiglio di Stato mette la parola fine a una vicenda emblematica dell’era Covid, dove il rigore formale ha prevalso sull’emotività dell’emergenza. Una storia che parla di deleghe inesistenti, responsabilità mal attribuite e di un ufficiale dei Carabinieri che ha dovuto attendere tre anni per veder riconosciute le proprie ragioni.
Nel marzo 2022, in piena emergenza pandemica, un tenente colonnello dei Carabinieri viene sottoposto a una sanzione rarissima per un ufficiale: due giorni di consegna di rigore per non aver verificato la regolarità dell’obbligo vaccinale di un suo sottufficiale. Una punizione che ora, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato, si rivela essere stata ingiustamente comminata.
La vicenda prende le mosse da una delega per i controlli del green pass, scaduta il 31 dicembre 2021 e mai rinnovata. Nei primi giorni di marzo 2022, un brigadiere sotto il comando dell’ufficiale si presenta al lavoro dopo la scadenza della sua esenzione vaccinale. Otto giorni di servizio che costano cari al suo superiore, ritenuto responsabile di non aver effettuato i dovuti controlli.
Ma il Consiglio di Stato ha smontato pezzo per pezzo l’impianto accusatorio: “Merita accoglimento la censura denunciata dal ricorrente sull’assenza, in capo all’ufficiale medesimo, di qualsivoglia delega, men che meno di quella inerente l’obbligo di verifica del green pass tramite l’apposita applicazione “Verifica C19” e correlati adempimenti connessi all’acquisizione delle informazioni necessarie tramite il sistema “Green pass 50+” reso disponibile dall’INPS secondo le previste procedure di accreditamento”.
Ed ancora: “Acclarato che nel periodo in cui gli è stato contestato l’illecito omissivo il ricorrente NON ERA DESTINATARIO DI ALCUNA DELEGA – in quanto: i) quella rilasciatagli il 3 agosto del 2021 era scaduta al 31 dicembre 2021; ii) quella precedente non afferiva alle modalità di controllo del green pass; iii) neppure gli era stata rilasciata quella di cui al modello allegato “F”, previsto dalla circolare 9 dicembre 2021, attuativa degli obblighi di vigilanza vaccinale di cui all’art. 4-ter, d.l. n. 44 del 2021 che correttamente prevedeva la sottoscrizione del delegato per accettazione della delega stessa – viene dunque meno il presupposto dell’illecito omissivo (mancata vigilanza nella qualità di dirigente di settore dell’organizzazione infortunistica locale) contestato dall’autorità procedente, attesa l’inesigibilità della prestazione, con la conseguente declaratoria di illegittimità della sanzione irrogata”.
Nel provvedimento viene quindi evidenziato come non si possa essere chiamati a rispondere di controlli per i quali non si ha più una delega formale. Una decisione che riafferma un principio fondamentale: in materia amministrativa, non esistono deleghe tacite o proroghe implicite.
Particolarmente significativo è il fatto che l’ufficiale, una volta accortosi dell’irregolarità del sottufficiale, aveva prontamente comminato la prevista sanzione amministrativa. Un’azione che dimostra come non ci fosse stata alcuna negligenza, ma anzi un tempestivo intervento non appena la situazione era emersa.
QUANDO L’ERRORE LO PAGANO TUTTI, TRANNE CHI LO COMMETTE
Una vicenda kafkiana quella conclusasi al Consiglio di Stato, che mette a nudo non solo l’illegittimità di una sanzione disciplinare, ma l’intero sistema di spreco di risorse pubbliche che si nasconde dietro la leggerezza burocratica.
Tre anni di procedimenti, centinaia di ore di lavoro sprecate, quintali di carta protocollata, commissioni di disciplina distolte dai loro compiti ordinari, stipendi pagati per redigere verbali destinati al macero. E alla fine? Una sonora bocciatura che costerà cara soltanto ai contribuenti.
Il caso del tenente colonnello dei Carabinieri, punito ingiustamente con due giorni di “consegna di rigore” per presunti controlli mancati sul green pass, è emblematico di un sistema dove la responsabilità personale è un miraggio, nonostante sia un dato di fatto che “dall’alto” sia stata innescata una catena di sprechi che farebbero impallidire qualsiasi revisore dei conti.
Immaginiamo per un momento se anziché di un amministrazione pubblica, si fosse trattato di un’impresa privata: ebbene, quale amministratore delegato potrebbe permettersi di avviare procedimenti disciplinari infondati, mobilitare commissioni, produrre montagne di documenti, per poi vedersi tutto annullato in tribunale senza pagare di tasca propria? A ben guardare, nel settore privato, un simile spreco di risorse aziendali costerebbe il posto a qualsiasi manager.
Ma nell’amministrazione pubblica il copione è sempre lo stesso: chi sbaglia non paga. I costi della mala gestione vengono comodamente scaricati sulla collettività. Per non parlare del danno d’immagine inflitto a un ufficiale superiore costretto a subire una sanzione rarissima e umiliante.
L’onta mediatica, le giornate di lavoro perse, il tempo sottratto ad attività ben più urgenti – tutto questo ha un costo che ricade sulle spalle dei contribuenti. E mentre il Consiglio di Stato demoliva l’impianto accusatorio evidenziando l’assenza di una semplice delega, qualcuno si è chiesto quanto è costata questa dimostrazione di inefficienza amministrativa?
La beffa finale? L’ufficiale ora potrà giustamente richiedere i danni, e indovinate chi pagherà? Ancora una volta i contribuenti, non certo chi ha avviato un procedimento disciplinare basata sul nulla giuridico.
È tempo di introdurre una vera responsabilità personale per chi, nei ruoli apicali della pubblica amministrazione, innesca procedimenti infondati che drenano risorse pubbliche. Perché fino a quando gli errori dell’amministrazione continueranno a essere pagati dalla collettività, l’efficienza rimarrà un miraggio e la burocrazia continuerà a essere un mostro che divora risorse senza rendere conto a nessuno.
La giustizia ha trionfato, certo. Ma a quale prezzo? E soprattutto, a carico di chi? La risposta, purtroppo, la troviamo nelle nostre buste paga, dove continuiamo a finanziare l’inefficienza di un sistema che, molte volte, protegge chi sbaglia e punisce chi ha ragione.
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