Una luce nel buio: la storia di Bean

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AS-SUWAIDA, Siria – L’aria fredda di montagna è mitigata dal sole caldo che avvolge la piazza principale della cittadina dove ormai da anni la gente, giovani, anziani, donne senza velo e famiglie si sono date appuntamento per protestare contro il regime di Bashar al Assad.

Molti di loro sono stati arrestati, torturati, perseguitati, ma giurano di non aver mai alzano le mani contro nessuno.

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I drusi

Siamo nella terra dei drusi, la terza religione più numerosa in Siria, nel 2010 rappresentavano il 3,2 per cento della popolazioni, ora tra morti, scappati e scomparsi sono molti meno.

 I drusi sono una religione monoteistica abramitica che è una propaggine gnostica e una setta neoplatonica dell’ismailismo, un ramo dell’Islam sciita . Nel corso del tempo i drusi si sono affrancati dall’Islam e ora sono una religione indipendente.

In Siria, la maggior parte dei drusi vive nel Jabal al-Druze, una regione aspra e montuosa nel sud-ovest del paese, che è abitata per oltre il 90 percento da questa comunità. Sono gente di montagna, duri ma gentili e tra loro, spicca, soprattutto per l’altezza Bean Eh Innow.

Un signore di 77 anni, con una keffiyah rossa interno al collo appoggiata ad un maglione nero. Magro con i capelli bianchi e gli occhiali. Il volto è rugoso come quello di qualcuno che ha vissuto, che mostra che tra le pieghe c’è qualcosa di più di una vita normale.

La storia di Bean

Ci rifugiamo in un caffè sperando in un po’ di calore, ma come molte parti della Siria, l’elettricità non funziona e i generatori vengono fatti andare solo quando è veramente necessario, perché la benzina costa molto.

Non ha fretta Bean di raccontare nella sua storia, un po’ piegato su se stesso, si accomoda su un divano scomodo, non vuole bere niente, solo portarci indietro nel tempo.

1973, la guerra contro Israele

Nel 1973, Bean era un ragazzone, ufficiale dell’esercito siriano, che si ritrova a combattere nella guerra contro Israele. “Ho combattuto per anni per la mia patria, facevo parte di un’élite dove c’erano solo i migliori. Poi un giorno,  Hafez Assad (il padre di Bashar) che allora era il presidente, mi ha chiamato e mi ha detto di prepararmi per andare a combattere contro l’Iraq”.

Bean rimane interdetto, gli iracheni erano stati degli alleati nella guerra contro Israele, li avevano salvati quando sicuramente sarebbero morti, come potevano combattere contro di loro? “La mia risposta è stata un’unica frase: il mio nemico è a ovest non a est (facendo riferimento ad Israele)”.

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17 anni per una frase

Quella frase e il suo rifiuto hanno cambiato la sua vita per sempre. “Sono stato arrestato, portato nel ramo Palestine di una delle prigioni più dure e imprigionato per 17 anni. Dal 1975 al 1992. Ho subito torture che nessun uomo dovrebbe mai affrontare. Mi vergogno di quello che mi hanno fatto. Mi vergogno di quello che sto per raccontarvi, ma se il mio passato può essere utile a sapere cosa abbiamo vissuto negli ultimi 50 anni, così sia”.

La ferocia umana

Bean si chiede come possano esistere uomini che pensano, inventano modi creativi per fare del male. “C’era la stanza della morte, sui muri c’erano dei cerchi di metallo dove venivi legato a braccia distese come se fossi in croce, le dita in punta appoggiavano su uno sgabello di legno.

Ero completamente nudo. Poi spingevano via lo sgabello, versavano dalla testa un liquido appiccicoso, urticante, che ti colava lungo tutto il corpo, ti toglieva la forza di respirare, in fretta arrivavano gli insetti, di si appiccicavano ovunque, ti entravano dappertutto, cominciavi a sputacchiare per non farli entrare in bocca. Ti lasciavano lì per 4 ore”.

Che aspetti a confessare? “Confessare cosa? dicevo piangendo, non ho fatto nulla se non rifiutarmi di combattere contro l’Iraq”. E ancora quella sorta di marmellata mischiata con qualcos’altro che bruciava tantissimo.

Bean ogni volta,  si risveglia nella cella e capisce di essere ancora vivo. La sua voce mentre racconta è tranquilla, pacata, sicura.

“Vuoi sapere il nome del mio torturare. Te lo voglio dire perché questa gente ha dei nomi che tutti devono sapere: Naji Jamil. Segnalo, segnalo, magari un giorno pagheranno, lui e suo fratello. Ah suo fratello, anche peggio di lui, erano i responsabili delle torture. Ho confessato qualunque cosa”.

La tortura della sedia

Il fratello lo faceva sedere nudo su una sedia. Poi gli legavano il pene ad un filo di nylon che legava alla sedia di fronte dove si sedeva lui. Guardava Bean, gli faceva delle domande, e se lui non rispondeva perché era innocente, indietreggiava con la sedia tendendo il filo e dandogli dei colpi.

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L’anziano sussulta come se la sensazione fosse ancora reale. “Il dolore era lancinante, mi si gonfiava, diventava enorme, e per tanto tempo ho pensato che non avrei avuto figli. Mi dispiace dirvi queste cose, sono umilianti, ma non so in che altro modo spiegare”.

Poi sveniva, si risvegliava in cella con il nylon ancora legato all’organo. “Una persona buona c’era là dentro, un medico militare che veniva a vedermi e con una lametta cercava di liberarmi dal filo, ma il mio pene era talmente gonfio che a volte ci metteva molto tempo, mi diceva che sarebbe andato tutto bene, mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva che ero ancora un uomo”.

A cosa pensavi in quei momenti? “Non pensavo, ci si spegne, si cerca di sopravvivere al dolore che è l’unica cosa che ti entra in testa. Ho pensato di morire tante volte. Volevo uccidermi, ma non c’era nulla con cui potessi farlo.

Sono andato avanti, ho perso la nozione del tempo e del mondo. C’ero solo io, i carnefici e il dolore.

Ho visto mia madre tre volte in 17 anni. La prima volta si ì fatta vedere forte, la seconda aveva le stampelle, la terza era una donna distrutta. Ho sempre pensato che Assad sarebbe caduto prima o poi, quello mi dava un po’ di forza, forse è quello che mi ha tenuto in vita, vedere cadere il regime degli Assad”.

Giorni, mesi e poi anni. Bean e uno dei migliaia di detenuti che entrano e non escono, che spariscono o muoiono. Racconta la sua storia come se la vedesse fuori, con quel distacco forse necessario per affrontarla, fino a quando non comincia a raccontare delle torture agli altri detenuti che erano nella sua prigione.

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“Da una fessura nella porta, potevo guardare fuori, vedevo i ganci, ogni giorno mettevano 4 o 5 persone, riuscivo a sentire i denti che si rompevano. Quello era il posto in cui morivano. E io li guardavo perché volevo ricordare le loro facce.

Un giorno appendono una donna. Lei urla, quella scena è un incubo che non mi abbandona d’allora. Gridava che non aveva fatto nulla, in realtà volevano suo marito, per quello l’avevano presa, così che lui si consegnasse, le hanno messo un anello intorno al collo, urlava di essere incinta e loro la picchiavano sul grembo. Non potete immaginare cosa fosse quella scena”.

Bean smette di parlare, si tira un po’ indietro e scoppia piangere come un bambino, la voce gli si spezza, le mani si contorcono, gli occhi si riempiono di lacrime come un signore anziano non dovrebbe fare mai.

@Osama Hilal

“Quella donna ha perso il suo bambino per le botte che ha preso. E io pensavo alla moglie che avrei voluto avere, ai figli, a quel fratello e padre che ho scoperto essere morti solo dopo che sono uscito. Quella donna incinta mi perseguita più di qualunque cosa abbiano fatto a me. Come si può fare una cosa del genere?”.

Si ricompone, torna serio, sono trascorsi 17 anni, un’amnistia lo fa uscire insieme a migliaia di prigionieri”.

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Il rilascio

E’ l’una di notte e lui non riconosce nulla. Fa freddo, indossa una specie di pigiama ricavato da diversi pezzi di stoffa, ha due ciabatte ma di tipo diverso. Un taxi si ferma e lo carica anche se non ha soldi.

Da dove vieni? “Avevo paura a parlare, per una sola frase avevo fatto 17 anni di prigione. Non sapevo se potevo fidarmi, non parlavo con nessuno da tanto tempo. Siamo arrivati nel mio villaggio, ma non riconoscevo nulla, era notte, non mi ricordavo niente. Poi il miracolo. Ho visto una lucina, come quella di una lanternina nella notte. E l’ho seguita.

Ho bussato la porta, mi ha aperto una donna molto anziana che non ho riconosciuto. Figlio mio sei tu? Mi ha detto prendendomi tra le braccia. Erano 17 anni che nessuno mi abbracciava. Ho capito che era mia madre”.

Lei metteva da anni una luce fuori dalla porta, perché sapeva che se mai lui fosse tornato, avrebbe riconosciuto la sua luce e l’avrebbe seguita, anche se la casa era cambiata, anche se loro lo erano.

Piange di nuovo Bean, ma sono lacrime dolci, lacrime di gioia, lacrime di liberazione. È stata dura riprendere a vivere, per tanto tempo non ho mangiato se qualcuno non mi diceva di farlo, dormivo per terra, il mio stomaco non era abituato.

Ho visitato la tomba di mio padre e di mio fratello e ho promesso che mi sarei preso cura di sua moglie e suo figlio”.

La vita lo aspetta

Sposa la cognata, aspetta a fare figli perché teme che il nipote si senta meno amato se fa dei figli suoi, invece poi nascono due ragazze ed entrambe diventeranno dottoresse.

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Un giorno un ex detenuto viene a trovarlo, loro si rifugiano in una stanza e parlano per ore, parlano solo della prigione e di quello che hanno passato, quando se ne va la moglie gli si rivolge arrabbiata: “Sono forse il tuo nemico? Perché non mi hai parlato mai di queste cose?”. Ma Ben quando è uscito aveva 40 anni, voleva solo dimenticare e andare avanti.

Sono trascorse quasi due ore, Bean è spossato, si alza per andare in bagno e poi si scusa per averci lasciato, quell’uomo avanza talmente tanto credito dalla vita che potrebbe non scusarsi mai fino alla fine del mondo.

Che cosa hai provato l’8 dicembre scorso quando è caduto il regime?

Sorride per la prima volta, “Ho fatto quello che abbiamo fatto tutti, saltato, riso, pianto e ballato tutto insieme. Ricordatelo, sono sopravvissuto a tutto per questo momento”.

Bean ci guarda e riprende a piangere, “Non credete per un solo momento che mi dimentichi di quella donna, lei è nella mia testa sempre, perché le donne hanno subito tanto, hanno lottato, manifestato, gridato per questo paese e sono state arrestate, picchiate, violentate, spero che nessuno, oggi possa pensare di sacrificarle per risolvere i problemi di questo paese.

Mi preoccupa chi è al potere oggi, non lo nascondo, spero solo avremo la forza di costruire un paese laico dove tutti abbiano gli stessi diritti e doveri”.

Ci stiamo per salutare, il caffè è silenzioso, non ci eravamo accorti che i ragazzi nei divanetti intorno, stanno ascoltando commossi.

Il futuro

Dopo tutto quello che hai passato, ma anche superato, cosa diresti a quei giovani che due settimane fa sono usciti dalle prigioni di Bashar al Assad? Migliaia di persone che come te, fatte a pezzi dalle torture, dovranno ricominciare.

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Non ci pensa neanche un secondo: “Gli direi che la vita è bella, che non bisogna rimanere nella prigione che ci hanno costruito dentro. Io scrivevo con le unghie sui muri della cella messaggi per quelli che sarebbero arrivati dopo, magari una banana o una mela, per avere qualcosa da guardare.

Se avevo un uovo ne davo mezzo a chi aveva più fame e il giorno dopo sapevo che quella gentilezza sarebbe tornata indietro. Questo vorrei dire a chi ci è passato: Assad si è preso la mia vita, ma non ha cambiato la persona che sono, perché ho promesso di vivere in pace.

Ogni giorno per anni, ho sentito quella voce dentro che mi urlava ‘vendicati, uccidili’, e così ho fatto l’unica cosa che credevo fosse giusta, ho ucciso quell’uomo dentro di me che gridava vendetta. La mia vendetta contro di loro è essere un uomo di pace”.

Ci alziamo e ci abbracciamo e baciamo tutti, perché Bean è una luce in questa Siria martoriata e lui si lascia stringere, perché gli abbracci sono la cosa che gli è mancata di più in prigione e perché ora non sarà mai più solo.

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