Enrico Vandelli, l’ex avvocato di Maniero: «Ero il più bravo, lo sottovalutai e mi ha manipolato. Mi resta solo la casa»

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di Roberta Polese

L’avvocato protagonista della docuserie di Sky«Fuorilegge: Veneto a mano armata»: condannato per associazione a delinquere e radiato. Dai processi in difesa degli Autonomi e la vicinanza alle Brigate Rosse alla Mala del Brenta

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Ripubblichiamo l’intervista di Roberta Polese a Enrico Vandelli, pubblicata a gennaio, una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024.

«C’è stato un momento, alla fine del processo del 7 Aprile, in cui io ero bravo. Ma non ero solo bravo, ero il più bravo di tutti. E quando Maniero è arrivato da me, a chiedermi di difenderlo, io ho pensato: il capo dei capi chiede di me, una sfida incredibile. Non avrei mai potuto lasciarmela scappare. Ma non avevo capito una cosa: Maniero era un figlio di buona donna, non potevo immaginare che mi avrebbe manipolato, fino a portarmi dove mi ha portato».




















































Enrico «Ricky» Vandelli, l’ex avvocato degli autonomi negli anni ‘80 e di Felice Maniero negli anni ‘90, è in un letto d’ospedale. Freme per andarsene a casa. Perché questo è il suo momento: Sky Original gli ha dedicato una docuserie in tre puntate, le prime due sono andate già in onda.
L’ultima parte verrà trasmessa sabato 27 gennaio. «Fuorilegge: Veneto a mano armata», prodotta dal padovano Alessandro Pittoni di Padova Stories, ideata da Sebastiano Facco e Marta Pasqualini, per la regia di Sebastiano Facco. Un delicato lavoro di archivio permette di vedere Padova negli anni di piombo, come le nuove generazioni non l’hanno mai vista. La trama è la vita di «Ricky» Vandelli, avvocato passato dalle luci della ribalta, difendendo gli autonomi accusati da Calogero di essere tutt’uno con le Br, alle accuse di contiguità mafiosa con Felice Maniero e Mala del Brenta. Vandelli è stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso e per spaccio, radiato dall’Albo degli avvocati. Sono passati trent’anni. Ora è in ospedale per un problema di salute, già oggi dovrebbe essere dimesso. «Ma sono contento di parlare di questo documentario, perché è davvero ben fatto»

Vandelli, quando ha capito di essere una storia da film?

«Quando me lo hanno chiesto! (ride) Ho guardato la serie completa tre volte, i ragazzi hanno fatto un lavoro immenso, ho ripercorso la mia vita, e devo dire che è stato emozionante».

Una vita in tre ore, qualcosa sarà rimasto fuori…

«Sono arrivato a Padova da Verona per fare l’università, vivevo in via Gorizia (davanti al Caffè Pedrocchi ndr) con altri tre ragazzi un po’ più grandi di me, era il ‘68, facevo Giurisprudenza ed è stata durissima, perché quelli erano tutti di destra, e una destra cattiva, eppure ce l’ho fatta, e lì è arrivata la mia grande infatuazione…»

Una donna?
«No: Emilio Vesce e la lotta di classe, fui rapito da lui e da Toni Negri, erano anni in cui ognuno di noi, degli autonomi intendo, aveva un ruolo nel movimento».

E lei che ruolo aveva?
«Dovevo andare a sentire le assemblee della Fgci, prendere nota di quello che si dicevano e riportare tutto ai compagni, una “spia” insomma».

Quando inizia a lavorare?
«Inizio con l’avvocato Giorgio Tosi, uno di sinistra vero, un grande professionista che aveva fatto il processo del Vajont, e ricordo che per riuscire a fare le perizie in nome dei superstiti della tragedia della diga, aveva impegnato perfino lo studio, per me era una persona immensa, avevo una grande stima di lui e dell’altro mio collega, Paolo Berti».

Poi la sua strada si divide ad quella di Tosi, perché?
«Perché lui aveva cominciato a fare i processi per conto della Fgci, noi autonomi eravamo dall’altra parte, non potevamo stare insieme. In quel periodo difendevo gli Studenti Medi. Quelli per me erano anni difficili, a 22 anni avevo avuto un figlio e avevo l’ansia di doverlo mantenere, ma la fede politica non mi ha mai abbandonato».

E poi arriva il 7 aprile.

«Quello non è stato solo un processo: è stata la mia vita, un evento che ha scandito le mie giornate per anni, prima per difendere i miei amici e poi assisterli anche in carcere. Alla fine abbiamo vinto noi, ha vinto Padova, e devo dire che il giudice Giovanni Palombarini è stato determinante, insieme alla nostra difesa: avevamo scardinato il teorema Calogero, ero all’apice della mia carriera, ero giovane e molto conosciuto».

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È per questo che non si rifiuta di difendere Maniero?
«Ho commesso l’errore di pensare che Maniero fosse una persona normale, ma non lo era, avevo sottovalutato la sua intelligenza».

Però anche i soldi hanno avuto un ruolo, lei di certo con il processo 7 aprile non si è arricchito…
«Di sicuro non mi sono arricchito con quel processo, anzi, e le dico una cosa: i soldi di Maniero mi avevano fatto comodo subito. Ma se ripenso a quel periodo non posso dire di aver scelto di difenderlo per i soldi: per me fu una sfida incredibile, solo dopo ho capito di che cosa era capace. Mi ha letteralmente circuito, sedotto, conosco almeno una cinquantina di episodi in cui mi sono sentito manipolato, non potevo più tirarmi indietro».

Quando Maniero viene arrestato e inizia a collaborare lei scappa in Francia, chi la protegge?
«I compagni, come sempre, loro non mi hanno abbandonato un solo momento, ma la latitanza è stata tremenda. Era impossibile mettermi in contatto con la mia famiglia, in quel periodo avevo anche un figlio piccolo che mi mancava molto, per nascondermi ero finito a vivere in posti davvero terribili, ricordo di aver pensato più di una volta “non ha senso vivere così”, alla fine mi hanno arrestato e sono andato nel carcere parigino La Santé, un luogo devastante».

Poi è arrivato in Italia: il carcere e la condanna per mafia, la radiazione dell’albo. C’è ancora un procedimento penale perché non ha dichiarato di aver comprato casa.
«Non più, ho vinto in Cassazione, posso almeno tenermi la casa, mi sento come se mi avessero riabilitato, e almeno mi resta qualcosa di mio: ho 75 anni e sono solo, gli unici che non mi abbandonano mai sono i miei compagni: Piero Despali è l’amico più caro che posso avere».

Nella serie c’è anche suo figlio Michele, una figura molto importante per lei, sembra di intuire che lui si sia schierato con la destra estrema… le provoca dispiacere?
«(Ride forte) Mio figlio è tutto tranne che di destra, è solo uno che fa tanto casino, se fosse di destra lo avremmo picchiato, tutti quanti».


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