La fermezza degli Usa complica le trattative per Cecilia Sala

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Le accuse sono deboli. Anzi, con ogni probabilità, non esistono proprio. L’Irna, l’agenzia di stampa semiufficiale del governo iraniano, ha finalmente dato notizia dell’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, avvenuto a Teheran il 19 dicembre scorso, un giorno prima del suo rientro a Roma. Ne ha parlato il dipartimento per i rapporti internazionali del ministero della Cultura, limitandosi a spiegare che si tratta di un caso di «violazione delle leggi della Repubblica islamica». Una dicitura talmente generica da non significare poi molto in termini legali: non esiste posto al mondo, del resto, in cui si viene arrestati e rinchiusi in una cella d’isolamento per non aver violato alcuna legge. Dunque ancora non si capisce quali siano i fatti specifici che hanno portato la polizia a intervenire. Di certo non il lavoro che la reporter stava svolgendo, perché tutte le sue interviste erano state comunicate e concordate con le autorità. Ad ogni modo, la semplice diffusione della notizia su un media iraniano, ovvero la prima ammissione ufficiale di aver in effetti arrestato Cecilia Sala, rappresenta un (piccolo) passo in avanti della vicenda nel suo complesso. «È un segnale che è stata arrestata per fare uno scambio», spiega a Fanpage il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury.

L’ALTRO ELEMENTO dello scambio è Mohamed Abedini, il 38enne cittadino svizzero-iraniano arrestato il 16 dicembre all’aeroporto di Milano-Malpensa perché ricercato dagli Stati Uniti, che lo accusano di aver violato le sanzioni fornendo al Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica componenti per i droni utilizzati per attaccare un avamposto di Washington in Giordania lo scorso gennaio, causando 3 vittime e una cinquantina di feriti. Con lui, per gli stessi reati, è stato arrestato a Boston un altro cittadino iraniano, Mahdi Mohammad Sadeghi. Nel primo pomeriggio di ieri, l’avvocato di Abedini, Alfredo De Francesco, dopo aver trovato un alloggio a Milano, ha depositato un’istanza per chiedere il trasferimento agli arresti domiciliari del suo cliente, al momento rinchiuso nel carcere di Opera, mentre sabato dagli Stati Uniti è arrivata la richiesta di estradizione, con annessa raccomandazione di tenerlo in galera perché potrebbe scappare. «Non c’è alcun pericolo di fuga del mio assistito», dice l’avvocato De Francesco, pronto a rinunciare ai termini delle 48 ore per la fissazione dell’udienza se anche la procura generale dovesse accettare di farlo, cosa che sposterebbe il tutto a dopo l’Epifania. L’obiettivo del legale, che comprensibilmente di politica internazionale non vuole saperne, è di avere prima un confronto con gli inquirenti milanesi, anche perché Abedini in Italia non è accusato di nulla.

AL DI LÀ dell’iter da seguire in tribunale, la vera partita diplomatica si gioca quasi tutta a Roma, dove il governo giura di star facendo il possibile per riportare Sala a casa. Il momento è difficile – bisogna gestire contemporaneamente sia la partita con l’Iran sia quella con gli Usa – ma l’atmosfera non è di quelle che ostacolano i lavori, prova ne sia il fatto che le opposizioni stanno rimanendo sostanzialmente in silenzio e che il Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, non ha dato sin qui segni di vita. La gestione dunque è tutta in capo al ministro degli Esteri Antonio Tajani, a quello della Giustizia Carlo Nordio e al sottosegretario Alfredo Mantovano, autorità delegata ai servizi di informazione e sicurezza. Ma se i primi de lavorano di diplomazia, destreggiandosi tra la fermezza richiesta da Washington e la flessibilità che invece dovrebbe essere propria di una situazione del genere, è il Guardasigilli ad avere un ruolo fondamentale sul caso Abedini, cioè sulla contropartita che l’Iran ha ampiamente fatto capire di volere per la liberazione di Sala.

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È LUI, di fatto, che in forza all’articolo 718 del codice di procedura penale potrebbe chiedere la revoca delle misure cautelari del 38enne ed è sempre lui che, al termine del percorso giudiziario, ha l’ultima parola sull’estradizione. Il problema è che liberare Abedini per via politica sarebbe uno sgarbo in piena regola agli alleati statunitensi e che pure farlo per via giudiziaria – concedendogli ad esempio i domiciliari – sarebbe un’azione molto malvista dall’altra parte dell’Atlantico. La polemica sul trafficante d’armi russo Artem Uss, pure ricercato dagli States, mandato a casa col braccialetto elettronico e poi fuggito, è ancora fresca nella memoria. Così come tutti ricordano come Nordio, quasi a chiedere scusa per l’inconveniente, si sia sentito in dovere di chiedere l’apertura di un procedimento disciplinare contro i giudici che disposero la scarcerazione dell’uomo, vicenda che si è infine chiusa con il Csm che non ha ravvisato irregolarità e via Arenula che ha rimediato solo una figuraccia.

PER ORA, mentre il Dipartimento di Stato Usa ha fatto sapere di non essere intenzionato a concedere alcunché all’Iran – e anzi lo avvertono di non azzardarsi a considerare Sala come merce di scambio -, le trattative tra Roma e Teheran riguardano per lo più le condizioni carcerarie della giornalista, che resta in isolamento ma ha ottenuto piccoli miglioramenti per quanto riguarda il vitto e la possibilità di telefonare a casa. L’Italia, dal canto suo, ha concesso ad Abedini di passare dal carcere di Rossano (la «Guantanamo di Calabria», dove sono rinchiusi quasi tutti gli accusati di terrorismo internazionale) a quello di Opera, considerato decisamente migliore. Piccoli passi, di certo utili, forse addirittura necessari, ma l’unica cosa che conta davvero è riuscire a far tornare Cecilia Sala



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