Quando Rosita Jelmini e il marito Ottavio (Tai) Missoni furono invitati a mostrare i loro capi per la prima volta al grande pubblico della moda era il 1967. Lo sfondo privilegiato era il Palazzo Pitti di Firenze. La cornice di osservatori ai lati della sala si componeva di membri della stampa, addetti ai lavori, buyers e clienti. Si trattava di un debutto fondamentale: ogni cosa doveva quadrare perfettamente. E ciò che a Rosita Jelmini Missoni non quadrava era il modo in cui la biancheria intima di colore scuro affiorava sotto ai tessuti leggeri e trasparenti. Fu allora che la stessa chiese alle modelle di sfilare senza biancheria intima: “sotto alle luci non si sarebbe notato”, pensò. Fu l’inizio del nude look, lo stesso che, nel medesimo giro di anni, era in via di sperimentazione a casa di Monsieur Yves Saint Laurent, lo stesso che oggi sfila sulle passerelle ad ogni giro d’anno, rivisto e rivisitato ancora e ancora, senza passare mai.
Eppure il 1967 era troppo presto e Rosita Jelmini Missoni, scomparsa all’età di novantatré anni, era già (troppo) avanti: “Fu un grande scandalo: dissero che stavamo trasformando le sfilate nel Crazy Horse (il cabaret parigino noto per i suoi spettacoli dalla forte carica erotica ndr.)”. La stagione successiva, i Missoni non furono richiamati a Firenze, ma nel frattempo il nude look si faceva già strada sulle passerelle. I capi furono però notati oltreoceano, richiesti fortemente dai grandi magazzini di New York, San Francisco, Boston e Los Angeles. Infine, sei anni dopo, Firenze ne riconosce il genio e l’Italia non li abbandona più. Un aneddoto, questo, che testimonia solo una delle tante innovazioni portate nella moda da Rosita Jelmini Missoni, donna del Made in Italy quando ancora l’imprenditoria italiana faticava ad accettare il femminile nel business della moda, creativa come poche ce ne sono state e poche, dopo di lei, ce ne saranno.
Capelli corti, una treccia che si diparte dalla nuca cadendo sulla spalla a mo’ di vezzo colorato, chiusa da un bel nastro, un paio di occhiali allungati ai lati, capi morbidi, mai monocolore. Questi il look e l’ensemble con cui abbiamo imparato a conoscere Rosita Jelmini Missoni, matriarca e co-fondatrice insieme al marito della storica Maison che porta il cognome della loro famiglia. Un modo di apparire – e di essere – che non deve sorprendere: Madame Missoni è stata la donna che ha trasformato la maglieria in arte applicata, in moda elevata alla seconda, proprio perché fatta di materia artistica, oltre che di materia tessile. È la donna dietro all’invenzione tutta italiana del put-together, ovvero l’intreccio apparentemente casuale di fantasie, pois e strisce, emblema di casa Missoni accanto allo zigzag e al patchwork. È anche la donna del motivo fiammato, concepito negli anni Sessanta con l’utilizzo di un macchina all’avanguardia e di vecchie matasse di tessuto prese dalla fabbrica di scialli e biancheria dei suoi nonni. Invenzioni che hanno spinto il marito a partecipare della creatività di Rosita, dando vita a nuove idee e motivi che, dal laboratorio nel seminterrato della loro abitazione di Gallarate, li ha portati nelle vetrine della Rinascente di Milano e poi, da lì, nel mondo.
Nata nel 1931 a Golasecca (Varese), sulle rive del Ticino, Rosita Jelmini Missoni è sempre stata amante dei colori. Lo era da piccola, quando la sua disposizione di bimba malaticcia spinse i genitori a mandarla a scuola in Liguria, tra il mare, il verde e i fiori della costa. Lo è stata da adolescente, quando si recava quotidianamente presso l’azienda tessile dei nonni, prima impegnata a realizzare bambole di carta con le pagine di riviste patinate, poi ritagliando le sagome delle sue prime creazioni su pezzi di tessuto avanzato. Lo è stata nella maturità, quando, con grande felicità creativa, si cimentava in tweed, lane cotte, disegni astratti tipicamente africani, arti applicate di stampo anglosassone, in un mixage sempre riconoscibile, sempre bello. Tanto che già nel 1972 il New York Times titolava: “I Missoni fanno la migliore maglieria del mondo e, secondo qualcuno, la moda più bella del mondo”.
Da allora, non è cambiato pur molto. Ci sono stati espansione ed evoluzione, riconoscimenti e nascite: una seconda e una terza generazione Missoni. Nel frattempo, Rosita è sempre rimasta lì, il suo nome è stato dato ad un fiore e a una stella, il suo tempo si è sempre diviso tra il lavoro e il giardino, anch’esso coloratissimo come i suoi capi, ricordo di Liguria in terra lombarda. Dalla casa di Sumirago, sulle colline boscose dietro Milano dove Rosita Jelmini Missoni ha rilasciato una delle sue ultime interviste per il New York Times, tra grappoli di cetriolo, germogli di aglio e calendule gialle, in lontananza, la fabbrica Missoni veniva descritta dall’autrice dell’editoriale come ben visibile, come un continuum di quel bel giardino. E in effetti, a conclusione dell’intervista, Madame Missoni ha tenuto a precisare: “Ma il mio vero posto è in ufficio”.
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