Alla “radice” della responsabilità del produttore: la Cassazione sul danno da medicinale, tra difetto informativo del bugiardino e oneri probatori.

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La tesi della ricorrente è che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto non difettosa la pasta dentaria e, del pari erroneamente, individuato la causa del danno occorsole esclusivamente nella sua condotta imprudente, consistita nell’aver fatto un uso abnorne del prodotto adesivo, accettando il rischio delle conseguenze neurologiche cui era andata incontro, anziché rivolgersi al dentista. Richiamato l’art. 117 D.lgs. n. 206/2005, la ricorrente sosteneva che in ordine alla responsabilità del produttore di un farmaco non sia «sufficiente la prova di aver fornito al consumatore le istruzioni di corretto uso né di aver formulato una generica avvertenza circa non precisati effetti collaterali. Per escludere la propria responsabilità il produttore deve provare di avere fornito un’avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell’indicato pericolo, in conseguenza dell’utilizzazione del prodotti, così da effettuare una corretta valutazione … dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno e, pertanto, di esporsi volontariamente e consapevolmente al rischio paventato». Tantomeno avrebbe valenza esonerativa l’autorizzazione al commercio, atteso che i requisiti pubblicistici realizzano solo un minimum di garanzia e considerato che la valutazione di pericolosità non attiene ai meri dati scientifici, ma coinvolge anche la percezione e le aspettative dei consumatori. Tenuto conto di ciò il fatto che la pasta contenesse una percentuale di zinco pari al 3,8%, idonea come tale a determinare conseguenze neurologiche, unito alla presenza di un’informazione inidonea a neutralizzare i rischi per la salute, essendo priva di riferimenti alle possibili conseguenze neurologiche connesse ad un uso eccessivo e al pericolo generico per la salute (l’uso smodato della pasta era posto, infatti, in relazione esclusivamente con la possibilità di un difetto della protesi, cioè il consumatore era informato solo del fatto che la necessità di una quantità eccessiva di pasta era indice di una dentiera scarsamente aderente) non bastava per rimproverarle, avendo preferito eccedere nell’uso della pasta piuttosto che rivolgersi al dentista per rifare o riparare la protesi, di avere accettato il rischio di dover subire danni neurologici alla persona. Né, tantomeno, la scarsa letteratura scientifica in merito ai rischi causati dall’intossicazione da zinco integrava l’esimente di cui all’art. 118 cod. cons., dato che lo stato delle conoscenze scientifiche e teoriche non va identificato con l’opinione espressa dalla maggioranza degli studiosi, ma con il livello più avanzato delle ricerche effettuate in un determinato momento, indipendentemente dalla scarsa fruibilità della conoscenza, in considerazione del fatto che l’interazione tra rame e zinco e la riduzione del rame provocata dal primo causasse patologie neurologiche era noto dagli anni settanta del secolo scorso. In altri termini, se la produttrice, anziché ritirare dal commercio la pasta dentaria nel 2010 (quando già si erano verificati 416 casi avversi), l’avesse ritirata prima, la sua condizione sarebbe stata diversa. In definitiva, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente individuato la causa della mieloneuropatia esclusivamente nel suo comportamento imprudente anziché ravvisarla nella condotta della società produttrice che aveva omesso di informarla dei rischi che correva eccedendo nell’uso della pasta o tutt’al più nel concorso della condotta di entrambe.

A giudizio della Terza Sezione Civile, il motivo, sì come formulato, è fondato.

Anzitutto, deve essere escluso che l’attività di produzione di farmaci sia riconducibile alla disciplina della responsabilità per danni da prodotto difettoso. Le perplessità traggono origine dal fatto che, definito dall’art.1, d.lgs. 24/04/ 2006, n. 219 ( di recepimento della Direttiva 2001/83/CE ), come «ogni sostanza (o associazione di sostanze) che presenta proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o che viene utilizzata con mera finalità di diagnosi», esso non è un bene voluttuario, venendo di norma utilizzato a seguito di indicazioni promananti da figure professionali terze rispetto al produttore e al distributore, e, soprattutto, è ad esso connaturale un potenziale effetto “collaterale” pregiudizievole per la salute degli utenti, il quale, una volta materializzatosi, diviene causa del danno. A tale stregua la relativa commercializzazione è oggetto di copiosa e analitica regolamentazione relativa alle procedure di controllo, alle obbligazioni di contenuto informativo, alla certificazione da parte di organismi specifici in ordine al rispetto di precisi standard tecnici; regolamentazione in chiave prudenziale e precauzionale finalizzata a contenere e governare i rischi di danno connessi alla immissione in commercio ed all’utilizzo del farmaco. L’impiego del parametro del rispetto delle regole di certificazione è, tuttavia, elastico, perché non è affatto esclusa la responsabilità del produttore di farmaci non solo secondo la giurisprudenza nazionale[1], ma anche secondo quella comunitaria[2], sebbene la loro produzione risulti conforme alle prescrizioni di carattere tecnico. Le evocate perplessità sono alla base dell’orientamento giurisprudenziale in base al quale la relativa produzione va qualificata come attività pericolosa, in tal modo innalzandosi la protezione del consumatore-utilizzatore del prodotto medicale in forza del principio di precauzione, l’impresa farmaceutica essendo ritenuta responsabile anche qualora la causa della pericolosità del farmaco sia ignota ovvero quando la scienza, pur provando la correlazione tra l’assunzione del farmaco e il danno potenziale, non sia in grado di affermare con certezza se e in che misura l’organismo del paziente abbia inciso sulla manifestazione dell’effetto collaterale.

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Si sono al riguardo prese le mosse dalla distinzione tra prodotto pericoloso e prodotto difettoso onde rimarcare che, per escludere la responsabilità del produttore del farmaco, essendo il farmaco un prodotto pericoloso e non già (almeno di norma) un prodotto difettoso, non basta che l’attività di produzione soddisfi i requisiti pubblicistici che precedono la sua immissione in commercio, i quali realizzano «solo un minimum di garanzia per il consumatore (v. Corte Giust., 29/5/1997, C-300/95)», ma occorre anche considerare «la percezione e le aspettative dei consumatori (v. Corte Giust., 11/4/2001, C-477/00; Corte Giust., 28/10/1992, C-219/91)»[3].

Un tanto pur dovendosi ribadire che:

  1. il prodotto non è difettoso solo perché pericoloso, ovverosia il verificarsi del danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una sua più indefinita pericolosità di per sé insufficiente per evocare la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia[4];
  2. non esiste un prodotto del tutto innocuo[5] e che una certa dose di rischio può accettarsi purché sia ragionevole in relazione ad alcuni indici di valutazione proposti dal legislatore, i quali mediano tra i comportamenti esigibili dal produttore e le realistiche attese di sicurezza dell’utilizzatore, anche allo scopo di non imporre al produttore un costo elevato e inefficiente.

Un primo dato certo è allora che, come osservato dall’odierna ricorrente, la pasta adesiva solo perché conforme agli standard tecnici non è per ciò solo inidonea a provocare danni. Invero, nonostante il rilievo crescente attribuito alle norme tecniche emanate da organismi di normalizzazione (norme UNI e CEI in Italia), recepite o richiamate da provvedimenti legislativi, che il prodotto sia pienamente conforme agli standard tecnici – che siano espressamente prescritti dalle cosiddette normative verticali o che siano altrimenti desumibili dallo stato dell’arte – non implica che esso non sia potenzialmente dannoso, quand’anche se ne possa presumere la sicurezza e, per converso, un prodotto difforme può risultare solo occasionalmente (ma non necessariamente) dannoso. Il prodotto conforme agli standard tecnici può risultare difettoso, perché dannoso, in considerazione del fatto che gli standard tecnici individuano una soglia minima di sicurezza il cui rispetto è indispensabile per ottenere la certificazione senza la quale non è possibile immettere in circolazione il prodotto, ma non esonera da responsabilità il produttore che non abbia fatto ricorso a misure precauzionali additive, purché fossero nella sua disponibilità[6]. Il ragionamento, in verità, non è dissimile da quello che si segue quando si deve accertare la sussistenza di un comportamento colposo; segnatamente: il fatto che l’agente abbia osservato una norma cautelare esclude, di norma, la sua colpa specifica, ma tanto non esime dal verificare la sussistenza di una sua colpa generica.

Erra, dunque, il giudice a quo quando conferma la pronuncia del Tribunale che aveva «precisato come, in dipendenza della qualifica di presidio marcato CE, la parte adesiva era stata sottoposta ai controlli previsti dalla normativa in materia».

Ora, nel caso di specie, la ricorrente, per invocare la responsabilità del produttore, ha fatto leva su uno dei tre difetti su cui è incentrata la definizione normativa di prodotto difettoso, vale a dire il difetto di informazione (gli altri sono i difetti di fabbricazione – uno o pochi esemplari della serie sono difettosi, per cattivo funzionamento dell’impianto di prodizione o per una svista di qualche operatore- i difetti di costruzione – l’intera serie è difettosa a causa di inadeguata progettazione, mancanza di congegni di sicurezza, uso di componenti o materie prime inadatte, insufficiente sperimentazione ecc.-), ovverosia la mancanza o l’insufficienza di informazioni date dal produttore per un uso corretto del prodotto e per evitare i rischi connessi al suo uso. Detta informazione, sia quella tratta dalla presentazione del prodotto e dalle sue caratteristiche palesi, sia quella fornita dal produttore con istruzioni e avvertenze aggiuntive, ha un contenuto inversamente proporzionale alle ragionevoli attese di sicurezza del bene e deve essere contemperata con l’uso ragionevole del prodotto[7]. Nell’applicazione di detti principi, il giudice è tenuto a mettere a confronto le condotte delle parti in causa per valutare se il danno poteva essere più facilmente (cioè con minor sacrificio) evitato dalla vittima o dal produttore, alla luce delle informazioni di cui ciascuno dei due poteva disporre nel momento in cui ha agito, in uno con il rilievo attribuito ad una distinzione inespressa tra:

  1. danni prevedibili ed evitabili;
  2. danni astrattamente prevedibili, ma inevitabili;
  • danni imprevedibili ed inevitabili.

Il tutto sotto l’egida del parametro della ragionevolezza, quale strumento di concretizzazione e di bilanciamento di una pluralità di valori. Ebbene, esaminando specificamente il profilo del difetto di informazione, ha ragione la ricorrente quando osserva che l’informazione che si traduca in una mera avvertenza circa il fatto che un determinato evento possa verificarsi non vale ad esonerare il produttore da responsabilità; conducente è solo la veicolazione di informazioni che, come osservato da attenta dottrina, contribuisca «a prevenire un rischio evitabile o a soppesare adeguatamente quello che…non lascia altra scelta che accettarlo o rinunziare alle utilità del prodotto pericoloso. Un’avvertenza che non operi in un senso o nell’altro, ma si limiti a ricordare che le cose possono andare male e, su questa base, intenda isolare il produttore da responsabilità, val quanto una clausola di esclusione da responsabilità; e ne condivide le sorti».

Non bisogna, nondimeno, trascurare il fatto che la responsabilità del produttore non è regolata alla stregua di una responsabilità oggettiva pura (o assoluta) e che, consequenzialmente, il comportamento dell’utente non è affatto irrilevante: esso deve essere improntato al principio di autoresponsabilità, ex art. 122 cod. cons., e deve essere valutato dal giudice, il quale dovrà accertare se vi sono i presupposti per ritenere che proprio l’utilizzatore si sia trovato nella condizione migliore per evitare o contenere il danno.

Due precedenti assumono, ad avviso del Collegio, rilievo dirimente:

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  • 18/11/2022, n. 34027, che, in tema di danni alla salute conseguenti alla vaccinazione contro la poliomielite, ha ritenuto che l’accertamento del nesso causale – da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” ovvero della “evidenza del probabile”, come pure delineata dalla CGUE[8] in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale – implica la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) pericolosità del vaccino alla stregua delle leggi di copertura scientifica, e dall’altro, della sua effettiva sicurezza in relazione alla singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, apprezzata sulla scorta delle circostanze del caso concreto per come emerse dall’istruzione probatoria condotta nel processo, secondo un modulo di accertamento costituente una costante degli indirizzi giurisprudenziali causalistici più recenti[9]. Il punto di partenza del ragionamento svolto da questa Corte è costituito dalla distinzione tra vaccino (potenzialmente) pericoloso e vaccino difettoso. Secondo i giudici di legittimità negare «la potenzialità dannosa del vaccino, sulla base delle leggi di copertura scientifica» non ne esclude la difettosità. Che le conoscenze scientifiche dell’epoca qualificassero il vaccino come sicuro non poteva essere considerato indicativo dell’assenza di un difetto nello stesso, essendo quest’ultima qualità «determinata dallo scostamento tra sicurezza attesa – secondo i parametri previsti dalla legge – ed esiti concreti dell’utilizzo del prodotto»: potrebbe essere che un vaccino abbia provocato danni perché, ad esempio, «non correttamente confezionato o prodotto o perché non avrebbe dovuto essere somministrato in quella particolare circostanza». È indubbio che sussiste una distinzione tra accertamento del carattere pericoloso di un vaccino (così come di un medicinale) e accertamento di un difetto dello stesso: il giudizio di potenzialità dannosa in astratto non coincide con la valutazione in termini di sicurezza in concreto, ma pur dovendo muovere dalla necessità che il danneggiato dimostri il difetto prima ancora che il nesso eziologico tra tale difetto e il danno, considerando la responsabilità del produttore non si basa sulla colpa, non si può rendere difficile al danneggiato provare il difetto, neutralizzando la portata innovativa del passaggio dalla responsabilità di diritto comune alla responsabilità del produttore.

Di talché, la giurisprudenza di legittimità impone la valutazione scrupolosa del quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire l’eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l’evento lesivo: l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio della responsabilità del produttore «chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato» della norma che impone al danneggiato di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno è nel senso che «detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla commissione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare … che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “…difettoso…” non offrendo “…la sicurezza che ci si…” poteva “…legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze»[10].

  • 10/05/2021, n.12225, che ha chiarito il rapporto tra le diverse norme di responsabilità applicabili al caso di danno da farmaci, la nozione di prodotto difettoso, il ruolo dell’informazione del consumatore ai fini di tale responsabilità e la distribuzione dell’onere della prova. Considerato che ad escludere la responsabilità del produttore di farmaci non è invero sufficiente nemmeno la mera prova di aver fornito – tramite il foglietto illustrativo (c.d. “bugiardino”) – un’informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto, essendo necessaria un’avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell’indicato pericolo in conseguenza dell’utilizzazione del prodotto bensì di effettuare una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della particolarità e gravità della patologia nonché del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco).

Orbene, applicando i principi dianzi evocati al caso di specie, non può non rilevarsi che le informazioni contenute nel bugiardino non erano affatto tali da rendere edotta la ricorrente del rischio cui sarebbe andata incontro ove avesse ecceduto nell’uso del prodotto: è, difatti, vero che il bugiardino avvertiva di non applicare l’adesivo più di una volta al giorno e che il tubetto sarebbe dovuto durare almeno tre settimane, ma non metteva in relazione l’eventuale uso smodato con un rischio per la salute né specifico – neuropatia da riduzione del rame – né generico – danni alla salute – limitandosi a raccomandare all’utilizzatore di rivolgersi al proprio odontoiatra al fine di verificare la protesi dentaria, la quale per avere bisogno di una quantità elevata di prodotto adesivo evidentemente presentava problemi di aderenza alle gengive.

In altri termini, l’utilizzatore era messo sull’avviso circa il fatto che la protesi potesse essere difettosa, perché per farla aderire alle gengive era sufficiente l’impiego di una quantità minore di prodotto, ma non già del rischio che, continuando ad usare l’adesivo in maniera abnorme rispetto a quella consigliata, avrebbe corso il rischio di subire danni così gravi alla propria salute. In altri termini, ammesso che la ricorrente avesse accettato un rischio derivante dal proprio comportamento incauto questo consisteva solo in quello implicato dall’uso prolungato di una protesi non ben realizzata o bisognosa di riparazione. Anche sotto tale profilo quello dell’informazione generica e inadeguata le osservazioni critiche della ricorrente colgono, dunque, nel segno. La Corte territoriale, affermando che «la necessità di utilizzare più volte al giorno la pasta adesiva era evenienza specificamente posta dal produttore quale ragione per il consulto del dentista in quanto la protesi non più adeguata alla condizione dell’arcata dentale e non emendabile con l’utilizzo eccessivo del prodotto», non si è uniformata alla giurisprudenza di legittimità, che, anche prima che venisse specificamente disciplinata la responsabilità del produttore, riteneva che il danno subito da colui che si serve di una cosa può essere addebitato al produttore solo se questa è stata usata secondo la destinazione che il produttore poteva ragionevolmente prevedere e se il comportamento tenuto dall’utente (e dal quale il danno è dipeso) era ragionevolmente prevedibile, a meno che l’utente non fosse stato posto in grado di rappresentarsi che taluni di quei modi di uso andavano in concreto evitati perché si sarebbe potuta determinare una situazione foriera di danno[11].

Nella specie, della pasta adesiva non solo la ricorrente non aveva fatto un uso atipico, ma neppure era stata avvertita del tipo di conseguenze cui sarebbe andata incontro se avesse usato in maniera eccessiva il prodotto, pur essendo detto comportamento ragionevolmente prevedibile (che fosse ragionevolmente prevedibile emerge de plano dal fatto che lo stesso foglietto illustrativo suggeriva di verificare l’adeguatezza della protesi). Il che esclude che il danno non fosse prevedibile, ai sensi dell’art. 117, lett. b), cod. cons., da parte del produttore.

Resta da considerare l’ulteriore parametro, quello del tempo in cui il prodotto era stato messo in commercio, allo scopo di accertare se, pur essendo ragionevolmente prevedibile che l’utilizzatore usasse in misura eccessiva la pasta adesiva, il danno derivatone fosse inevitabile; la prevedibilità imponeva, infatti, alla produttrice di trovare un modo per eliminare gli effetti collaterali dell’uso del suo prodotto. È vero che la possibilità di produrre un bene più sicuro, la neutralizzabilità delle sue potenzialità dannose non sono elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, ma sono comunque elementi estrinseci di cui va tenuto conto alla stregua di canoni individualizzanti la ratio legis, cioè come strumenti di spiegazione di un effetto giuridico che sta a prescindere da essi; l’intento di responsabilizzare il produttore o di controbilanciare la libertà di impresa concessagli dall’ordinamento possono essere criteri di spiegazione del criterio scelto per allocare il danno, ma non sono elementi costitutivi della regola di fattispecie.

In altri termini, come evidenziato dalla dottrina, il responsabile deve essere individuato in colui che ha creato il rischio o il pericolo o che non ha impedito il verificarsi del danno o situazioni assimilabili, ma muovendo dall’assunto che il soggetto non viene condannato al risarcimento del danno perché il fatto che gli viene imputato significhi inottemperanza a un dovere di prevenzione bensì perché il danno si è verificato nei termini in cui la norma esige che si verifichi per il sorgere dell’obbligazione.

 

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[1] V. Cass. 28/07/2015, n. 15851.

[2] Cfr. CGUE, 5 marzo 2015, C-503 e C-504/13.

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[3] V. Cass. 10/05/2021, n. 12225.

[4] Cfr. Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116; Cass. 23/10/2023, n. 29837.

[5] Cfr. Cass. 10/05/2021, n. 12225.

[6] Cfr. CGUE, 29/05/1997, C-26/96, secondo cui le conoscenze scientifiche e tecniche di cui all’art. 7 lett. e) della Direttiva n. 85/374 non riguardano soltanto la prassi e gli standard di sicurezza in uso nel settore industriale nel quale opera il produttore, ma comprendono, senza alcuna restrizione, lo stato dell’arte inteso nel suo livello più avanzato, purché concretamente accessibile al momento della messa in circolazione del prodotto considerato)

[7] Cfr. Cass. 15/03/2007, n. 6007.

[8] Il riferimento è a CGUE, 21 giugno 2017, C-621/15.

[9] Cfr. Cass. 27/07/2021, n. 21530; Cass. 08/01/2020, n. 122.

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[10] Cfr. Cass. 8/10/2007, n. 20985.

[11] Cfr. Cass. 29/09/1995, n. 10274; Cass. 03/03/2005, n. 4662.



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