Tra sconfitta e annientamento c’è una grande differenza. A sottolinearla era stato qualche settimana fa il segretario di Stato americano Antony Blinken, quando di fronte alla caduta del regime siriano di Bashar al-Assad chiedeva uno sforzo collettivo affinché l’Isis “non alzi di nuovo la testa”. Come metastasi, la minaccia dello Stato islamico si ripresenta al mondo senza preavviso, quando la si credeva ormai innocua o quanto meno gestibile. Lo stiamo osservando in queste prime ore del nuovo anno, iniziato in modo speculare a quello precedente.
Se oggi il sangue scorre tra le strade di New Orleans per via di un’automobile scaraventata sulla folla nella notte di Capodanno, dodici mesi fa lo faceva in quelle di Kerman, in Iran, a causa di due esplosioni che hanno provocato 103 morti durante la commemorazione del generale Qassem Soleimani. A rivendicarle era stato l’Isis Khorasan (o Isis-K), la cellula afghana del Califfato. La stessa cellula che due mesi e mezzo dopo colpirà di nuovo a freddo, stavolta al Crocus City Hall di Mosca, dove hanno perso la vita 137 persone. Sempre a marzo, i fondamentalisti attaccano l’esercito del Niger provocando 30 vittime. A luglio, un’altra rivendicazione: i combattenti di Daesh aprono il fuoco davanti a una moschea in Oman in occasione dell’Ashura, giorno di lutto per i musulmani sciiti, uccidendo 6 fedeli. L’ultimo dell’anno, poche ore prima che l’America si scoprisse di nuovo vulnerabile, le Forze di difesa del Puntland in Somalia avevano sventato un altro attacco suicida organizzato dall’Isis. A collegare lo Stato islamico all’attentato negli Stati Uniti di un giorno fa – il bilancio parla di 10 morti, oltre il terrorista, e 30 feriti – è invece una bandiera trovata nel pick-up di Shamsud Din Jabbar, ucciso dalla polizia prima che potesse aumentare i numeri della sua strage.
Gli episodi appena sommariamente raccontati hanno epicentri lontanissimi, presentano nature differenti, così come a essere diverse sono le cause e le modalità di esecuzione. L’unico elemento in comune è una cruda constatazione: l’Isis è debole, ma vivo.
L’epoca in cui il gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi era fortemente radicato in Siria e in Iraq – dove aveva una base ad appena mezz’ora da Baghdad – è ormai finita, seppellita insieme al suo leader, ucciso nel 2019 da un raid statunitense. Non per questo però fa meno paura. Con la fuga della famiglia Assad si teme che i miliziani possano riconquistare terreno in Siria, sfruttando la lotta intestina tra curdi e ribelli filoturchi, mentre in Afghanistan i talebani faticano a smantellare le cellule dell’Isis-K e a prevenire i loro attacchi. Mappare i vari gruppi affiliati è complesso, ma una buona parte ormai è dislocata lungo l’Africa subsahariana, tra Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e Mozambico. Ancor più difficile è capire dove possano colpire, visto che chiunque venga ammaliato dalla propaganda può muoversi in nome di Daesh. Ieri a Rimini un egiziano con in tasca un Corano ha accoltellato quattro passanti prima di essere ucciso da un poliziotto. Il caso è tutto da ricostruire, ma giusto qualche settimana fa l’Europol avvertiva di una concreta minaccia jihadista per l’Unione europea.
Ad Huffpost, Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight e dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCt), non nega il pericolo: “L’area più pericolosa rimane certamente l’arco mediorientale e nordafricano, dove potremmo aspettarci una recrudescenza. Ma anche l’Europa non è immune”. Specialmente dopo eventi dal forte impatto mediatico, che possono spingere i più radicalizzati ad agire. “Solitamente, negli otto giorni dopo un attacco, seguono eventi secondari non per forza nello stesso luogo. Gli attentatori utilizzano le stesse tecniche, anche se spesso i loro attacchi risultano fallimentari”.
Quando l’Isis è stato smantellato come organizzazione, gli esperti di terrorismo si erano affrettati a specificare che con esso non scompariva anche la minaccia che rappresentava. Anzi, prevenirla sarebbe diventato ancora più difficile dato che poteva arrivare ovunque e da chiunque. “Una decina di anni fa l’Isis era più forte, quindi più facile organizzare un attentato. Oggi, benché sia attivo, il gruppo è molto diverso”, spiega ad Huffpost il professore associato in Studi sulla sicurezza all’Università di Torino, Andrea Beccaro, che sottolinea un aspetto. Il fatto che l’attentatore abbia prestato servizio in Afghanistan “non è una novità”, in quanto “già in passato ci sono stati ex militari che si sono radicalizzati”. Ciò che può essere significativo è invece “il rischio che ci sia un’organizzazione sul terreno, rappresentando un qualcosa di diverso rispetto agli ultimi anni quando al di fuori del Medio Oriente la capacità di forza dell’Isis era sotto controllo. Forse qualcosa sta cambiando”.
Negli ultimi anni si è parlato molto del pericolo rappresentato dai lupi solitari, un’accezione che però i due analisti non sposano fino in fondo. “Il lupo solitario da’ l’idea di un soggetto già fidelizzato” – prosegue Bertolotti – mentre sarebbe più corretto parlare di “terrorismo individuale, in cui non c’è alcun vincolo tra attentatore e organizzazione. Di fronte a eventi emotivamente coinvolgenti, alcuni soggetti possono essere spinti a intervenire”. Il Natale o il Capodanno rientrano in questa casistica, così come il ritorno dei talebani in Afghanistan, gli appelli di Hamas o la vittoria dei ribelli dell’Hts in Siria.
Per essere reclutati non serve quindi l’assenso di nessuno. Si agisce e basta. I terroristi solitari lo fanno in autonomia, senza seguire un ordine preciso. Tranne uno: provocare il numero più alto di vittime. Il successo di un’azione, e dunque la rivendicazione da parte di ciò che rimane dell’organizzazione dell’Isis, passa tutto dal numero di morti. Più ce ne sono, più si avrà interesse a intestarsi l’attacco per dimostrare la propria forza. “Ce lo dice lo storico degli ultimi dieci anni”, osserva Bertolotti. Un lasso di tempo in cui l’Isis è cambiato, è stato indebolito e sconfitto in alcuni suoi obiettivi. Ma chi lo credeva del tutto annientato si sbagliava.
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