Illusioni, scaramanzie e alienazione di vincitori e vinti della tombola d’azzardo, rifugio per pensionati prudenti e giocatori compulsivi. «Quando vengo lascio a casa la carta di credito, avevo fatto 10 mila euro di debiti»
Ripubblichiamo questo articolo di Alessio Di Sauro uscito ad agosto, uno dei più apprezzati dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024.
Prima ancora del denaro, ciò che si perde è la cognizione del tempo. Nella sala bingo di viale Zara la luce è sempre la stessa, che si tratti di mattina o sera. Finestre non ce ne sono e la luce bianca dei neon illumina i volti dei giocatori chini sulla cartella, gli occhi a guizzare da una colonna all’altra cercando di tenere il ritmo dei numeri chiamati all’altoparlante. Il ritmo è serrato, tutto inizia e finisce in un paio di minuti. La litania di cifre si sussegue senza sosta, interrotta solo da qualche imprecazione a denti stretti e da due urli: il primo di chi annuncia la cinquina e il secondo, definitivo, pietra tombale sulle aspirazioni altrui, «Bingo!».
A quel punto la tensione si scioglie. Alla felicità di uno si contrappone il disappunto degli altri cento e rotti, alla metà buona dei quali, sistematicamente, «ne mancava soltanto uno». Sul tavolo del vincitore viene posizionato un segnaposto, ora gli addetti passano per la sala a vendere le nuove cartelle, marsupio in vita per distribuire i resti. La maggior parte delle schede costa un euro, ma possono arrivare anche a tre. Spesso non serve domandare ai clienti quante ne desiderano, basta un cenno del capo. Qualcuno non ha più un centesimo e se ne va. Ma il gioco se ne frega e ricomincia, ancora e ancora.
Cartelle, contanti e scaramanzie
L’ultimo numero, quello magico, è di casa al secondo piano. Nella sala è «assolutamente vietato sostare senza giocare», si legge all’ingresso. Per sedersi bisogna superare le slot machine al pianterreno, là dove una selva di giocatori armeggia coi cambiamonete e tenta di allineare i volti di Jerry Calà, Umberto Smaila e delle ex ragazze del Drive-In. Invano, perlopiù.
Nel tardo pomeriggio i tavoli sono quasi tutti occupati. Al netto di uno sparuto gruppo di neo-maggiorenni più concentrato su birra e patatine, la maggior parte della clientela è over 50 e ha pensieri soltanto per il gioco. I pagamenti, solo in contanti. Per cambiare bisogna andare al bar, effettuare una transazione a vuoto e ricevere il corrispettivo in banconote. Di alcolici se ne bevono pochi: la rapidità delle chiamate impone reattività nel controllare le caselle, perché l’annuncio della vincita è fondamentale per il suo riconoscimento. Se il bingo viene di fatto realizzato ma non chiamato al giocatore non è riconosciuto il premio; mentre se lo annuncia in ritardo rischia di dividerlo con chi è arrivato al traguardo con un numero superiore di palline estratte.
Un tavolo è occupato da cinque persone. Ognuno segna i numeri a modo suo, in omaggio a una ritualità di fantozziana memoria.
Antonio ha 75 anni e frequenta le sale da quando il bingo è stato legalizzato, nei primi 2000. Con sé ha 50 euro, non uno di più. «La carta di credito la lascio a casa — racconta —. Una volta giocavo pesante, slot e casinò, sono arrivato a fare anche 10 mila euro di debiti. Adesso cerco di pormi un limite, il bingo è tutto sommato innocuo». I pennarelli della casa non li sfiora nemmeno, per segnare i numeri ne usa uno personale. Scaramanzia? Neanche a parlarne, a sentir lui. «Questo scrive meglio», glissa. Il tabellone luminoso che indica i 14.500 euro di montepremi del Superbingo — si vince entro sole 38 estrazioni — incombe sulla parete, ma le vincite sono per lo più modeste. In viale Zara e nelle altre tre sale milanesi una cinquina può fruttare al massimo poche decine di euro; un bingo qualche centinaio, a meno che non si tratti delle più ricche varianti bronzo, argento o oro. Alle cinque del pomeriggio le cartelle vendute sono circa duecento a partita. L’11 per cento dell’incasso va allo Stato, il 18 ai gestori e il 70 nel montepremi. Si vince, ma mai abbastanza; si perde, ma mai abbastanza.
Più vinti che vincitori
Per qualcuno il bingo non è così innocuo. Maria Giovanna, anni 55, è seduta al tavolo da cinque ore e lei, di euro, ne ha già spesi 400. Nella sua postazione ci sono i resti di un pollo fritto ordinato nel primo pomeriggio. Aziona la lampada al centro del tavolo per chiamare il servizio bar e farsi portare il quarto caffè della giornata; le sigarette le ha comprate invece al distributore al piano terra e ne accende una con il braciere dell’altra. Di cartelle ne prende sei alla volta, ma lei di pennarelli non ne utilizza: all’inizio di ogni partita va a sedersi alla postazione dei computer condivisi e inserisce il numero di serie della scheda, cosa che permette il controllo dei numeri in automatico. «Ho iniziato a giocare il giorno del mio quarantacinquesimo compleanno — racconta —. Mi ci portarono alcuni amici, non sapevo nemmeno le regole. Mi sedetti pochi secondi prima dell’estrazione del bingo happy, comprai una sola cartella da tre euro. Ne vinsi 3.800, al primo colpo. Quella è stata la mia rovina. In pochi mesi e ho iniziato a giocarmi stipendi interi». Nelle giornate migliori riesce a coprire la metà di quello che spende, sostiene.
Prova e riprova, a un certo punto riesce finalmente ad annullare una cartella, e persino gli addetti alla sicurezza le regalano un sorriso. Nel frattempo si è fatta sera, come si intuisce non dall’imbrunire ma dall’aumento del montepremi: 255 euro. Quattro di questi vanno ai compagni di tavolo: cartella pagata per tutti. «Si fa così», puntualizza Maria Giovanna. Potrebbe salutare la compagnia ma non lo fa. «Per pareggiare i conti devo recuperare altri 200 euro». Non ci andrà nemmeno vicina.
Alle 2 di notte arriva il segnale di chiusura. Le righe si rompono, in molti investono gli spiccioli superstiti al chiosco dei panini all’uscita. Camminano insieme ma parlano da soli. L’illusione è finita ma i sogni sono solo rimandati. Anche oggi si vince domani.
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