La recente vicenda di Chiara Ferragni, accusata di irregolarità nella gestione di un’iniziativa commerciale, si è conclusa con il pagamento di una multa, lasciando dietro di sé un forte senso di ingiustizia e disillusione. Questo caso, lungi dall’essere isolato, è emblematico di un sistema in cui il denaro può sostituire la responsabilità e in cui i privilegiati trovano sempre una via per aggirare le vere conseguenze delle loro azioni.
Nel dettaglio, l’influencer è stata coinvolta in un’infrazione legale o amministrativa (a seconda del contesto specifico, come la mancata trasparenza commerciale o irregolarità fiscali legate a una campagna promozionale). Tuttavia, anziché affrontare un processo approfondito o una vera assunzione di colpa, la questione è stata risolta con il pagamento di una multa, di certo esorbitante per la maggior parte dei cittadini, ma una cifra assolutamente irrisoria per qualcuno con il suo patrimonio. Il messaggio che traspare è chiaro: per chi ha i mezzi, la legge non è un ostacolo, ma un fastidio economico facilmente aggirabile.
Questo episodio mette in luce una dinamica che ormai permea molte società moderne: l’idea che la giustizia non sia davvero uguale per tutti. Per le persone comuni, un errore o una trasgressione comporta conseguenze concrete: multe che possono compromettere bilanci familiari, procedimenti giudiziari che trascinano per mesi, se non anni, e un impatto reputazionale spesso irreversibile.
Per i ricchi e i potenti, invece, ogni problema legale o amministrativo si trasforma in una semplice transazione economica.
Secondo Bauman, il capitalismo moderno tende a trasformare tutto – dalle tradizioni alle regole morali – in beni scambiabili. Nel caso Ferragni, la giustizia è stata di fatto ridotta a una questione economica: pagando una somma di denaro, si è potuta sottrarre a qualsiasi conseguenza reale, dimostrando come il privilegio economico consenta ai più ricchi di non assumersi le proprie responsabilità. Per Bauman, questo fenomeno non è solo ingiusto, ma corrosivo per la società, perché alimenta un sistema in cui il potere del denaro prevale sul principio di equità e sulla solidarietà[1].
Il caso Ferragni è particolarmente problematico perché coinvolge una figura pubblica che ha costruito il proprio impero mediatico sulla vicinanza al pubblico e sull’apparenza di autenticità.
La sua narrazione pubblica, basata sul concetto di “ragazza normale” che ce l’ha fatta grazie al talento e alla determinazione, entra in palese contraddizione con l’immagine di un’élite che risolve ogni controversia con la forza del denaro. È un tradimento implicito verso i milioni di follower che la vedono come un modello, una figura che apparentemente rappresenta meritocrazia e trasparenza, ma che nei fatti dimostra il contrario.
Ancora più grave è il silenzio che spesso accompagna questi episodi.
Il pagamento della multa, per quanto previsto dalla legge, diventa un modo per chiudere rapidamente la questione, senza aprire alcuna riflessione pubblica sulle azioni che l’hanno generata. Dove è la responsabilità sociale?
Invece di fare mea culpa o impegnarsi a cambiare atteggiamento, la strategia sembra sempre quella di minimizzare, di trasformare tutto in una piccola distrazione da dimenticare con il prossimo post su Instagram.
Questa vicenda solleva interrogativi ancora più ampi sul funzionamento del nostro sistema legale e sociale. Se le leggi non sono in grado di garantire una vera equità, ma possono essere aggirate o “comperate” dai più ricchi, che senso ha parlare di giustizia?
E quale messaggio stiamo mandando alle nuove generazioni, che vedono sempre più spesso esempi di personaggi pubblici che evitano le conseguenze delle loro azioni semplicemente pagando una cifra che, per loro, è poco più di un dettaglio?
Il caso della multa Ferragni non riguarda solo lei. È il simbolo di un sistema in cui i soldi valgono più dell’etica, in cui la legge è rigida solo per chi non ha i mezzi per aggirarla, e in cui il privilegio economico si trasforma in privilegio morale. Forse è il momento di smettere di celebrare i successi di chi è già in cima e iniziare a chiederci se quel successo è costruito su fondamenta solide, o solo sull’abilità di giocare con le regole per uscirne sempre puliti.
L’etica, per definizione, implica la capacità di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tenendo conto dell’impatto delle proprie azioni sugli altri. Nel lavoro degli influencer, e in particolare nel caso di Ferragni, questo principio sembra spesso subordinato a una logica di profitto e auto-promozione. C’è una contraddizione fondamentale nel modo in cui gli influencer, compresa Ferragni, cercano di presentarsi come modelli etici e al tempo stesso come imprenditori.
Da un lato, si propongono come promotori di valori – dalla sostenibilità all’empowerment, dalla solidarietà all’autenticità – che richiederebbero coerenza e impegno concreto. Dall’altro, il loro lavoro consiste principalmente nel vendere prodotti e stili di vita, alimentando un sistema consumistico che spesso contraddice gli stessi valori che professano.
Questo cortocircuito diventa evidente nei casi in cui le iniziative degli influencer, anziché generare un beneficio collettivo, si traducono in un arricchimento personale.
Un lavoro senza contenuto reale
Uno dei primi problemi con il lavoro degli influencer è il concetto stesso di “lavoro”.
Sebbene promuovere prodotti, gestire social media e mantenere un’immagine pubblica richieda certamente impegno, spesso il valore intrinseco di questa attività è discutibile.
A differenza di altri lavori creativi o intellettuali, che si fondano sulla produzione di contenuti significativi, gran parte del lavoro degli influencer si basa sulla spettacolarizzazione della loro vita privata e sul consumo di beni materiali.
La domanda cruciale è: qual è il contributo reale degli influencer alla società?
Molti di loro promuovono standard di vita irraggiungibili, incoraggiano un consumismo sfrenato e alimentano l’ossessione per l’apparenza e il lusso. Invece di offrire contenuti educativi, culturali o socialmente utili, gran parte del loro lavoro consiste nel persuadere le persone a comprare cose di cui non hanno bisogno, spingendole verso un modello di vita spesso insostenibile e poco autentico.
L’illusione della meritocrazia e l’impatto negativo sulle nuove generazioni
Un altro mito legato al mondo degli influencer è quello della meritocrazia. Spesso si dice che gli influencer “si siano fatti da soli”, che abbiano costruito il proprio successo grazie al talento e al duro lavoro. Ma quanto di questo successo è veramente frutto del merito? Molti influencer emergono grazie a privilegi preesistenti, come una rete di contatti, risorse economiche o un’estetica conforme agli standard dominanti.
Questo perpetua un modello sociale in cui il successo non dipende dalle competenze o dall’impegno, ma dalla capacità di apparire in un certo modo e di attirare l’attenzione.
Invece di rappresentare un esempio di meritocrazia, gli influencer rafforzano un sistema che premia la superficialità e penalizza chi non ha i mezzi o la possibilità di entrare in questo circuito elitario.
Gli influencer esercitano un’enorme influenza sulle giovani generazioni, e proprio qui risiede il problema più grave. Promuovendo uno stile di vita basato sull’apparenza, sul consumismo e sulla perfezione irrealistica, molti influencer alimentano l’insicurezza, la competizione tossica e l’insoddisfazione personale. Piattaforme come Instagram e TikTok, dove la vita appare filtrata e idealizzata, hanno dimostrato di avere un impatto negativo sulla salute mentale, aumentando ansia, depressione e disturbi legati all’immagine corporea[2].
Invece di aiutare i giovani a sviluppare un senso critico e a coltivare valori positivi, molti influencer li spingono verso un’ossessione per il successo superficiale e il materialismo. In questo contesto, il lavoro degli influencer non solo fallisce nel contribuire al progresso sociale, ma diventa un fattore attivo di regressione culturale. Contraddire il lavoro degli influencer non significa demonizzarlo in toto, ma mettere in discussione le logiche consumistiche, superficiali e spesso manipolative che lo governano. La soluzione passa attraverso una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, una regolamentazione più stringente e la promozione di modelli alternativi che valorizzino contenuti autentici e sostenibili. Solo così sarà possibile costruire un rapporto più equilibrato e sano con i nuovi media e chi li popola.
[1] Cfr. Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, Bologna: il Mulino.
[2] Il report “#StatusOfMind” ha monitorato gli effetti dei social media sulla salute mentale dei giovani, identificando problemi come ansia, depressione, disturbi del sonno e insoddisfazione dell’immagine corporea.
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