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Immagine Shutterstock.

Quando entrai nella scuola secondaria superiore chiedevo spesso ai colleghi di poter assistere alle loro lezioni, come metodo per imparare al meglio una professione dagli esperti. Un giorno in cui avevo un’ora “libera” un docente di storia mi invitò alla sua lezione sulla battaglia di Montaperti (1260). Davvero interessante fu conoscere i dettagli di un evento tanto importante dal punto di vista storico e strategico, ma rimasi allibito dal fatto che il docente non fece alcun commento di valore educativo, e si infervorasse nella descrizione di una carneficina in cui, a fronte di 600 morti ghibellini, in un sol giorno furono trucidati 10 mila guelfi in fuga. Il tutto narrato asetticamente, come fosse la visione di un appassionante film di guerra (salvo l’accorata e doverosa citazione di Dante, Inferno X, 85). Mi chiesi allora quale dovesse essere la differenza fra la lezione su Montaperti (ieri) e la lezione di Montaperti (oggi). Il senso di insegnare la storia agli adolescenti sta tutto qui, altrimenti la storia stessa non ha nulla da insegnarci. E cosa ci insegna la battaglia di Montaperti? Ci dice, tra le tante riflessioni immaginabili, che è impossibile pensare oggi a una guerra tra Siena e Firenze, proprio come la Seconda guerra mondiale ha reso assurdo il solo pensiero di ucciderci ancora tra austriaci e italiani, tra francesi e tedeschi… E dunque, se i nostri popoli, che si massacravano con potenti eserciti tra una città e un’altra e tra uno stato e un altro, e oggi convivono pacificamente, significa che la pace è possibile e che la guerra è un flagello evitabile, non una fatalità destinata a replicarsi in eterno1. Eppure questa stessa evidenza viene ancora negata persino di fronte a una possibile catastrofe atomica.

Sembra quasi che tutta l’educazione civica, tutto l’impegno della scuola, agenzia privilegiata di socializzazione per creare rapporti di cooperazione, fratellanza, rispetto dei diritti umani e delle diversità, non siano serviti ad altro che a illudere intere generazioni del cosiddetto occidente di poter esportare il proprio modello positivo di convivenza pacifica all’intero mondo. Accade così il contrario, e cioè che queste nuove generazioni sembrano ormai disilluse sulla possibilità di inversione della politica guerrafondaia e del suo nuovo inesorabile destino2. Destino che ha mutato il quadro geopolitico spostando le guerre dal locale al globale, ovvero alla contrapposizione tra blocchi di potere enormi e fuori controllo che alimentano di anno in anno “micro” conflitti come minacce continue di scontri planetari apocalittici.

L’universo pacifista, questo sconosciuto

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Se la pace non fosse possibile non la si dovrebbe nemmeno insegnare! Invece la storia dimostra che la pace è possibile, ma conferma altresì che i fattori che alimentano la guerra sono molti di più di quelli che alimentano la pace, dunque qualcosa non funziona nel nostro sistema educativo o nel sistema politico di gestione del potere. Sono difetti di organizzazione o c’è un “baco” nel cervello umano che impedisce agli umani di essere umani? Insomma, viene da chiedersi: se noi ormai conosciamo, grazie al contributo di tutte le scienze, come funziona l’universo bellicista che ritma la storia, come mai non siamo riusciti a porvi rimedio? Oppure si deve riconoscere che non si è studiato e rafforzato il sistema contrario, ovvero l’universo pacifista che, soprattutto negli ultimi cent’anni, ha dimostrato la possibilità di contrastare le violenze senza l’uso della violenza?

Prima di ogni discorso sul tema, vi è la necessità pregiudiziale di possedere una mappatura dell’universo pacifista, sostanzialmente sconosciuto ai più e – ciò che è più grave – a molti educatori, politici e persino alle persone di cultura che dovrebbero tentare di invertire la rotta che porta alla distruzione della stessa vita sul pianeta. Questo “universo pacifista” semisconosciuto comprende le esperienze pratiche di risoluzione delle tensioni e dei conflitti, gli studi sulla violenza e sulle sue dinamiche e l’invenzione di nuovi ed efficaci strumenti di costruzione e mantenimento della pace. Per ciascuno di questi aspetti vi è ormai una letteratura corposa reperibile online3 per coloro che desiderano approfondire i temi relativi: l’educazione alla pace, il disarmo, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza agli eserciti, la nonviolenza, la difesa non armata e gli organismi sovranazionali per la tutela dei diritti umani e dell’ambiente. Tutte le scienze si sono occupate di questi argomenti soprattutto negli ultimi cent’anni e la produzione di letteratura specifica è ormai amplissima e facilmente rintracciabile. Ci vuole solo il tempo per leggerla e ricavarne le informazioni che possano costruire nelle future generazioni una “coscienza planetaria” auspicata dall’ONU nel preambolo alla dichiarazione universale «come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni». Prendiamo in considerazione questo ultimo aspetto. È un ideale ancora così lontano proprio perché l’ONU, di fronte alle guerre in atto, sembra che ormai non conti più nulla.

La grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragicità. Volontà di potenza contro volontà di potenza. E schiacciate nel mezzo le istituzioni che ne avrebbero dovuto giudicare gli atti e anche giungere a sanzionarli. Esplicitamente ormai queste istituzioni sono considerate “nihil” dai detentori del potere effettuale. Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore. Neppure più il velo dell’ipocrisia sta a coprire la realtà che il diritto vigente è il diritto del più forte. Ma proprio questo è il problema: chi è il più forte? Come lo si deciderà? Tacciono i filosofi, muti i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi. Non ci sarà altro arbitro, allora, che il conflitto in armi? La decisione spetterà soltanto al vincitore? Così è sempre stato e così è destino avvenga ancora, se tutti gli istituti di mediazione, tutti i luoghi di discussione e compromesso vengono smantellati.4

Quest’ultima frase, nella sua drammatica verità, sembra precludere ogni speranza di prevenzione e di soluzione delle guerre, proprio perché l’opinione pubblica viene pilotata dagli stessi sostenitori dei conflitti armati. Il complottismo, il populismo, il disfattismo, l’indifferenza e il pessimismo hanno le loro buone ragioni e privano di senso ed entusiasmo ogni discorso contrario. I pacifisti sono creduloni e sognatori e l’apologo di “Ivan lo sciocco” di Tolstoj appare come una favoletta senza valore pratico5.

Sembra non esservi più nulla intorno a noi che possiamo dire capace di dar forma al futuro. Un grande scrittore del Novecento, Elias Canetti, ha parlato di questa situazione in pagine memorabili. «Questa cattedrale con i suoi ottocento anni potrebbe ridursi in polvere la prossima notte… questa città traboccante di vita crollare in un quarto d’ora». Se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo. Se lo comprendiamo, invece, può crescere la possibilità di salvezza.6

L’urgenza dell’educazione alla pace

Comprendere il pericolo della guerra è dunque la chiave per superarlo. C’è un’urgenza nell’educazione alla convivenza pacifica che sembra trovare consapevolezza solo nei “fanatici” pacifisti, negli “illusi” sostenitori del disarmo unilaterale, negli “irenisti” seguaci di papa Francesco, negli “ingenui” propugnatori della difesa popolare nonviolenta, e così via.

In realtà il problema dovrebbe essere affrontato nei corsi di aggiornamento e dibattuto nei collegi dei docenti7, ma sappiamo che la struttura burocratica con le sue stringenti incombenze diventa l’ostacolo e anche il pretesto per evitare di mettere in gioco la struttura stessa della formazione primaria e secondaria.

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Le linee guida istituzionali per una educazione alla pace a scuola hanno trovato forse la migliore espressione in una circolare del 2007 del ministro Fioroni, a cui si rinvia come a una inascoltata “grida” di manzoniana memoria. In essa si affermava quasi 20 anni fa un principio metodologico di valore perenne:

L’apprendimento e la pratica dell’azione per la pace e la nonviolenza e per i diritti umani devono essere finalizzati all’acquisizione del senso di responsabilità e devono contribuire all’educazione del rispetto dell’Altro. Si tratta di uno stile di vita, di un modo di essere che non si apprende attraverso lo studio astratto di particolari discipline, ma che si assorbe per contatto, perché si è immersi in un clima di vita e di apprendimento in cui quotidianamente i valori della pace, del rispetto dell’altro e delle regole, del benessere inteso come stare bene insieme, vengano vissuti e respirati a pieni polmoni.8

Anche le e i docenti che danno una vita per la scuola spesso non sanno accordarsi per dare agli allievi una scuola per la vita (anzi, per la sopravvivenza!), proprio quando il futuro è messo a repentaglio dall’alto rischio di una deflagrazione mondiale alla quale sarebbero destinati a soccombere impotenti. Questo avviene probabilmente perché anche nei docenti stessi non vi è una chiarezza sulla complessità del problema. O forse, proprio per questa complessità, perché evitano di affrontarlo e si richiudono nei luoghi comuni. Non differenziano la violenza interpersonale da quella istituzionale. Ritengono, come la maggior parte delle persone, che la guerra derivi dalla cattiveria umana, dall’odio, dalla bramosia e dal desiderio di vendetta e che questi vizi non siano estirpabili. Da questi vizi si fanno derivare i desideri di conquista, gli abusi di potere, le ingordigie economiche e tutti gli interessi e i pregiudizi che scatenano ogni belligeranza. E il dibattito si chiude qui, con la convinzione che se tutti diventiamo buoni la guerra non si fa. Simili banalità teoriche non risolvono il mistero della violenza personale e istituzionale e del loro rapporto.

C’è uno studio di Erich Fromm, pressoché sconosciuto anche agli addetti, che ha chiarito scientificamente questo apparente enigma. Si intitola Anatomia della distruttività umana9. È una ricerca antropologica delle radici e dei meccanismi della violenza soprattutto nelle culture di tribù cosiddette “primitive”. Nello stesso territorio, in areali diversi, egli ha osservato tribù ferocissime e altre che non conoscevano la violenza nemmeno come vocabolo.

Gli esseri umani apprendono tutto. Imparano a controllare le proprie azioni e reazioni nel lungo periodo dell’apprendimento che, a differenza degli animali, dura tutta la vita. La guerra è un fenomeno che non ha nulla a che vedere con le difficoltà dei singoli di reprimere la rabbia, l’invidia, l’odio che li potrebbe portare alla sopraffazione e all’omicidio. Questi comportamenti non sono “istinti”, sono reazioni che partono da semplici riflessi, non condizionati adeguatamente durante la formazione e che, nel fenomeno guerra, trovano una situazione di contrapposizione e una giustificazione collettiva ideale per scatenarli. Ma non sono atteggiamenti “spontanei”. Sono bensì artefatti e pilotati da una struttura rigidissima: l’esercito, dove la coscienza, mediante una gerarchia inflessibile, viene orientata soltanto all’obbedienza. E questa, nel momento dell’azione, deve essere cieca e priva del dubbio, perché altrimenti non raggiunge gli obiettivi, ovvero la distruzione dei nemici e delle loro strutture.

Il tema scomodo dell’antimilitarismo

C’è una vignetta ormai famosa di Pizzola che mostra un giovane soldato armato di tutto punto che afferma pressappoco così: «Sono felice perché qui mi danno una medaglia per quelle stesse cose per le quali nella vita civile ti darebbero l’ergastolo». La stessa morale viene capovolta all’interno del regime militare, e anche le persone miti devono compiere azioni violente che non avrebbero mai pensato di fare. La guerra si realizza con una macchina infernale che, dagli Assiri ad oggi, semina distruzione e morte da un continente all’altro, per difendere interessi camuffati da ideali per gli arruolati e per il popolo sprovveduto.

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Queste considerazioni dovrebbero essere affrontate a scuola, soprattutto nella secondaria di primo e secondo grado, attraverso discussioni su libri letti, simulazioni di situazioni, debate, recital, incontri con obiettori di coscienza e con immigrati reduci dalle guerre nel mondo, con i responsabili di associazioni e movimenti per la pace e i diritti umani, con ricerche sulle alternative nonviolente e tanto altro. Il tutto però dovrebbe essere svolto in modo coordinato, secondo un disegno di formazione pluriennale condiviso dall’intero collegio dei docenti e coinvolgente tutte le discipline. Già questo auspicio diventa quasi improponibile nella scuola italiana, ma vi sono esempi virtuosi di istituti scolastici che dovrebbero essere presi come modelli di buone pratiche10. Sono esempi ancora limitati, e spesso le iniziative sono svolte come “aggiunte” alle programmazioni se non come attività extra curricolari, quasi disturbanti l’andamento didattico “normale”. Vi sono inoltre le resistenze di docenti e famigliari che non credono nell’articolo 11 della Costituzione e che accettano la possibilità della guerra sostenendo l’esistenza di eserciti sempre più armati con ordigni micidiali, come se questi fossero la garanzia della nostra sicurezza. La scuola, che dovrebbe per statuto “contrastare gli stereotipi e i pregiudizi” come questi, si trova spesso a confermarli per lo più silenziosamente, senza avere il coraggio di coinvolgere nel dibattito i protagonisti delle opinioni contrapposte per raggiungere una convergenza possibile e riuscire a pensare un mondo senza eserciti11. Vi sono interi settori della storia e della letteratura antibellicista e contraria a ogni tipo di violenza che sono dimenticati o volutamente ignorati dagli studi scolastici.

Se non c’è nei docenti questa conoscenza, come fanno a contrapporre agli slanci artefatti dei futuristi sulla Prima guerra mondiale le liriche dei poeti “disfattisti” o del romanzo straordinario di Bertha Von Suttner Abbasso le armi!? Non si tratta soltanto di presentare asetticamente i punti di vista sugli effetti dei genocidi12, ma di saper trarre dall’orrore la consapevolezza che in qualche modo ciascuno ne porta una parte di responsabilità, non fosse altro che per l’indifferenza di fronte al ripetersi odierno dei medesimi perversi “meccanismi”. Nei campi di concentramento non ci si dovrebbe limitare a piangere il passato e a maledire i tedeschi, i nazisti o i fascisti, ma a mostrare con continui aggiornamenti quanti genocidi sono avvenuti prima e dopo e sono ancora in corso, spesso nel silenzio complice dei media.

Le pagine più forti del diario di Anne Frank, della lettera di Giacomo Ulivi o di quella di don Milani ai giudici, debbono essere apprese a memoria e recitate con fervore in uno spettacolo sulla pace che dovrebbe essere costruito come “portfolio” delle esperienze più significative del percorso compiuto, da mostrare ai genitori e a altri istituti scolastici, ripreso e inserito come video in YouTube e come patrimonio nel sito della propria scuola13.

Pace, tra autorità e libertà

Queste considerazioni introducono un ulteriore argomento nella mappatura, ovvero la necessità di avere comunque un corpo di polizia e un controllo armato che contrasti le violenze private o quelle di gruppi delinquenziali. Dibattito che viene affrontato da sempre, ad esempio, nella letteratura anarchica14, radicalmente antimilitarista ma attenta ad evitare il caos nell’organizzazione della società.

In buona sostanza, anche l’aporia pedagogica classica tra Autorità e Libertà, che sembra ormai dimenticata, entra a pieno titolo nelle argomentazioni di base orientate a sostenere il dialogo continuo come fondamento delle relazioni nonviolente. Queste discussioni non andrebbero delegate ai soli docenti di lettere o di filosofia, ma dovrebbero coinvolgere le altre discipline come, ad esempio, era previsto nella ricerca collettiva denominata “area di progetto” della riforma “Brocca”15 e come si sarebbe dovuta verificare nella terza prova, autentico saggio di studio multidisciplinare. Tutte innovazioni fallite miseramente, forse perché la parcellizzazione dei saperi, l’eccesso di specializzazione e il semplice irrigidimento dell’orario delle lezioni rendono sempre più impegnativa la formazione integrale dei docenti, il lavoro cooperativo e le attività pluri e inter-disciplinari. Questi stessi motivi rendono altrettanto inagibile una formazione “completa” alla pace, dove ogni disciplina diventa consapevole dell’importanza dei propri contributi complementari. Come c’è una filosofia per la guerra così esiste una filosofia per la pace, una musica, una biologia, un’antropologia, una chimica, una psicologia, una storia, una letteratura, una poesia, una geografia, una economia e una finanza per la pace.

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Educazione all’autonomia morale contro il fanatismo

Uno studio di didattica è giunto a una definizione del concetto di autonomia in educazione16. In esso si distinguono quelle che vengono definite le autonomie funzionali e disciplinari dall’autonomia morale. L’educazione alla pace richiede una formazione che porti all’autonomia morale, cioè a mettere l’individuo in grado di scegliere ciò che è giusto, ciò che è valido per il bene di tutti e di ciascuno. Già dalla primaria si dovrebbe discutere questo argomento per arrivare alla definizione di libertà. Essa viene intesa come il dover fare ciò che voglio, mentre è nel volere ciò che devo fare che si dovrebbe pervenire, dopo un congruo percorso di riflessione. Questa “scoperta”, soprattutto nell’adolescenza, aiuta a orientare i ragazzi all’autocontrollo e alla capacità di valutazione critica delle azioni da compiere. È un lavoro lungo e difficile quello di creare abitudini di responsabilità attraverso non solo le discussioni, ma soprattutto mediante la scelta di un impegno civile per il bene comune (in gruppi, associazioni, movimenti, partiti). La scuola sembra lontana da questo obiettivo, e dunque anche da uno spazio possibile di autentica educazione sui temi del pacifismo e sulle azioni richieste per realizzali. Queste impostazioni metodologiche necessitano un cambiamento piuttosto radicale della struttura scolastica tradizionale che, in parte, è già realizzata, ad esempio con le flipped classroom, dove si insegna a operare in autentica autonomia di apprendimento. Di questo tipo di didattica ha bisogno una educazione alla pace come prerequisito e come garanzia di corretta padronanza di abiti nonviolenza attiva17. Qualche esempio può servire.

Un docente che insegna a leggere e a scrivere, in ogni ordine di scuola, verifica periodicamente i progressi e si accorge se un allievo ha acquisito la padronanza della lingua e a quale livello attraverso la correzione di performance disciplinari come il tema, il saggio breve, un semplice dettato o un colloquio. La scuola, purtroppo, si limita a verificare queste prestazioni disciplinari e non le prestazioni di autonomia disciplinare. Cosa si deve intendere per prestazioni di autonomia disciplinare? Nella fattispecie linguistica, l’insegnante non dovrebbe accontentarsi del fatto che la o lo studente legga bene a voce alta o scriva un bel tema, ma dovrebbe verificare soprattutto se, dopo la scuola, legge di sua iniziativa dei libri, se tiene un diario, se scrive lettere ad amici, se ascolta audiolibri per puro diletto, se frequenta una biblioteca, se si abbona a una rivista, cioè se acquisisce col crescere dell’età quegli abiti che ne faranno per tutta la vita una persona di cultura, in perenne osservazione e ricerca. La scuola, in realtà, almeno qui in Italia in modo compulsivo, riempie di “compiti” un tempo ingiustamente indefinito. Questi compiti sono in genere ripetizioni di esercizi che intralciano queste performance di autonomia disciplinare, le quali invece favorirebbero la scoperta e la nascita di talenti che, nel sistema tradizionale, sono piuttosto repressi. Solo alcune o alcuni studenti si riveleranno interessati e studiosi in ogni disciplina, ma ciascuno/a dovrebbe essere valorizzato per gli interessi che manifesta e per la sensibilità che la/lo contraddistingue. Coloro che mostrano una sensibilità costante agli argomenti specifici e alle attività di pace, dovrebbero essere valorizzati, e in gruppi di lavoro, far sì che siano loro stessi a insegnare le vie della pace ai coetanei in ruoli di animazione. Per una didattica dei giovani “tutori” è tuttavia necessaria una programmazione “elastica”, una struttura diversa dell’orario, una flessibilità del gruppo classe e della gestione degli spazi: tutte innovazioni che faticano a entrare a regime negli istituti scolastici, perché le sperimentazioni svolte rimangono circoscritte e sono rarissimi i casi di dirigenti e insegnanti coinvolti.

Nell’educazione alla convivenza pacifica le esperienze di Paat Paatfort, ad esempio, sono emblematiche. Esse dimostrano che ogni conflitto relazionale si può trasformare in un’occasione di crescita se si impara ad affrontarlo, con un metodo nonviolento ben sviluppato, passo dopo passo, nei suoi libri di didattica delle relazioni paritarie. Il pedagogista Daniele Novara opera da tanti anni in questo campo, offrendo un suo metodo efficace per creare una comunità tra gli allievi e non solo; si moltiplicano le pubblicazioni di esperienze, giochi e di tutto ciò che si può usare per creare relazioni autentiche non conflittuali a scuola, in famiglia, nelle squadre sportive.

Se queste modalità operative fossero introdotte in ogni scuola del mondo si potrebbe sperare in una risoluzione pacifica dei conflitti anche a livello politico, e non solo interpersonale. Purtroppo è di là da venire una tale diffusione, e se anche vi sono esperienze eccellenti di convivenza anche in contesti di odio etnico (Neve Shalom ne è un esempio in Israele) esse sono uniche, osteggiate dai loro governi e difficilmente riproponibili.

D’altra parte, quando l’ambiente attorno permane violento o non educato, determinato soprattutto da mass media incontrollati e incontrollabili, anche l’allievo che esce da una scuola di pace rinuncia presto alle sue abitudini nonviolente e ritorna all’aggressività originaria che con tanta fatica era stata modificata.

Questo vuol dire che l’educazione alla pace deve durare tutta la vita e che, oltre la scuola, è necessario creare altre occasioni formative che consentano di non regredire rispetto alle faticose conquiste di autocontrollo acquisite. Il Servizio Civile è una di queste opportunità, che dovrebbe essere proposta come scelta esemplare e preferenziale. La scuola superiore si dovrebbe far carico di invitare le e i giovani che lo stanno svolgendo per conoscere ciò che fanno, indipendentemente dai rilievi critici che ora si aggiungono.

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Una scuola verso il Servizio Civile 

Anche nei momenti di formazione dei giovani che scelgono il Servizio Civile valgono le medesime considerazioni pedagogiche finora espresse, ma i formatori scelti sono spesso impreparati nella componente pedagogica del loro operare, proprio quella più importante, e si limitano a svolgere lezioni frontali più o meno edulcorate con espedienti o “effetti speciali”, replicando le modalità di insegnamento della propria adolescenza. Questa formazione può essere interessante, a seconda della bravura delle/dei docenti, ma non sfocia in un affiancamento costante di gruppi di lavoro che, assieme al formatore esperto e a giovani che hanno già svolto il servizio, cerchino di realizzare quello che dovrebbe essere il servizio civile, ovvero la fase adulta del progetto di costruire la pace, così come altri organizzano la guerra. L’esercito della pace ancora non esiste, i “Corpi Civili di Pace” sono in fase embrionale e il servizio civile è l’ultima scuola istituzionale di cittadinanza attiva, ma viene scelta come anno sabbatico remunerato e di facile “consumo” e non come abbrivio e allenamento a ruoli e attività associative di intervento sociale diretto, da svolgere nel mondo come cittadine e cittadini responsabili e consapevoli delle modalità di mantenimento della democrazia e delle relazioni pacifiche. Non si tratta di formare degli attivisti massimalisti e intransigenti, ma delle persone convinte che senza il contributo di tutti non si sostiene la democrazia, la si indebolisce, e che le conquiste tanto sofferte dei diritti civili si perdono a favore degli interessi di pochi, e dei governi che a questi pochi sono ossequienti. A scuola, i docenti di diritto in collaborazione con quelli di storia, di filosofia e di scienze sociali dovrebbero insegnare gli elementi di base della democrazia, cioè a gestire una assemblea di classe e di istituto; governare le dinamiche di conflitto; apprendere i principi e i metodi della mediazione; mantenere il rispetto per le diversità e le minoranze; concertare i criteri per l’organizzazione delle azioni di protesta; aggiornare sulla legislazione specifica; narrare esperienze delle rivendicazioni e delle proteste di successo e analizzare quelle di fallimento; mostrare come la democrazia evoluta sia quel sistema che impone la supremazia del numero, nella consapevolezza tremebonda che quasi sempre sono state le minoranze illuminate a migliorare il sistema. Tutti insegnamenti vincolanti, dinamiche da apprendere e padroneggiare, che invece da mezzo secolo si lasciano all’estro disordinato di qualche giovane volenteroso, zelante o a volte anche scapestrato.

Nelle esperienze di pace entra a pieno titolo l’organizzazione dello sciopero come tecnica nonviolenta per eccellenza, sovente militarizzata nella storia con i “picchetti” fuori dai cancelli o con ricatti o disturbi tra categorie di lavoratori. Le proteste vanno organizzate per tempo, e non raffazzonate all’ultimo momento sull’onda di qualche evento e poi tutto finisce lì18.

L’educazione alla pace deve essere oggetto di tutte le discipline19. Anche la matematica può dare un contributo essenziale: ad esempio, insegnando gli elementi di statistica anche se non sono nel programma. Molte delle informazioni che riceviamo sono di tipo statistico, ma i criteri con cui i dati vengono raccolti non sono espressi, e pertanto ogni dato è inficiato nel suo valore. Insegnare anche a diffidare delle nostre microstatistiche personali sarebbe già un importante obiettivo, che tende all’oggettività come orizzonte di ogni dialogo onesto, pena una superficialità devastante che mette sullo stesso piano affermazioni sciocche con perle di saggezza. La stupidità di chi non sa distinguere il punto di vista soggettivo da quello oggettivo e afferma che il secondo non esiste, rafforzando con ciò l’individualismo cieco, è un pericolo costante soprattutto sui social e nelle chat quotidiane20. Le dittature e le guerre prosperano sulla stupidità umana, e la scuola dovrebbe fare un esame di coscienza, sapendo che da essa continuano a uscire individui sciocchi, che seguono le mode più becere21.

L’omologazione positiva al rialzo

Se si dovesse sintetizzare in un solo elemento la didattica della educazione alla pace, si potrebbe dire che essa consiste nella costruzione di una buona abitudine nel sostenere con costanza le iniziative più efficaci per la soluzione nonviolenta dei conflitti sia personali sia sociali.

La caratteristica psicologica saliente degli esseri umani è quella di “gregario” (Rita Levi Montalcini). Le persone vogliono sentirsi accettate, seguono le mode e riproducono gli atteggiamenti che li fanno sentire più inclusi nel gruppo. Spesso queste mode sono effimere, inconcludenti, insensate. Si tratta di individuare i comportamenti “virtuosi” e di avere la forza di andare controcorrente per invertire la pendenza del piano inclinato che fa scivolare le maggioranze verso il basso, e perfino verso gli abissi delle dittature. Tutte le dittature, infatti, hanno un’approvazione ampia. Anche l’attuale consenso delle masse alla politica folle delle privatizzazioni o, nello specifico, del riarmo e dei tagli ai servizi essenziali è frutto di questa miriade di scelte personali di approvazione silenziosa e di accondiscendenza passiva.

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Invertire la tendenza negativa di aggregazione al ribasso e educare a una capacità di “omologazione” positiva al rialzo, come scoperta e sostegno di atteggiamenti virtuosi e audaci di innovazione sociale, è il compito più importante di un’educazione all’impegno civico che porta alla pace e la mantiene nel tempo.

Ritentare sempre l’impossibile

La storia dell’obiezione di coscienza all’esercito è un racconto di atti solitari di coraggio e di grande solitudine. Chi è finito in carcere, accudito dai suoi stessi coetanei in divisa, si è percepito diverso e abbandonato al proprio destino anche da chi lo stimava, ma non muoveva un dito in suo favore. Quando Sophie Scholl nel film La Rosa Bianca (2005, regia di Marc Rothemund) distribuisce i volantini all’università, è convinta che i suoi compagni si ribelleranno alla follia nazista che li sta inviando a morire in prima linea a Stalingrado. Anche Franz Jägerstätter, Josef Mayr Nusser e tanti altri22 erano sicuri che la scelta di obiettare a Hitler fosse un obbligo morale per coloro che si professavano cristiani. Ma non ci fu una sollevazione di massa, e anche i 30 mila oppositori al regime furono “dissolti” perché schiacciati dal peso dei milioni di connazionali delatori e consenzienti. Tutti erano nazisti per paura. E in Italia durante il fascismo si visse una identica omertà diffusa. Nelle storie di mafia la dinamica è la medesima, e il terrore è uguale. Spesso i magistrati antimafia, o i semplici cittadini e cittadine che rifiutano di pagare il pizzo, pagano con la vita la loro solitudine, e ciò contribuisce a incrementare la paura. Forse oggi non è più solamente la paura a determinare l’accettazione supina di scelte miopi e contraddittorie, come i tagli alla sanità pubblica e alla scuola a fronte di un aumento esponenziale delle spese in armamenti. È una situazione di comodo e di disinteresse diffuso, che lascia soli coloro che intraprendono iniziative di protesta come i sit-in, gli scioperi o una delle altre centinaia di tecniche nonviolente23.

Sapersi aggregare alle iniziative contrarie alla violenza dovrebbe essere un imperativo morale per coloro che vogliono imparare a costruire la pace; sostenere i movimenti e le iniziative che cercano di eliminare le armi dovrebbe diventare una “moda” tra gli e le studenti24. È evidente che per raggiungere un grado sufficiente di giudizio critico per scegliere le iniziative migliori è necessario uno studio guidato dai diversi docenti nell’arco della formazione primaria e secondaria; un periodo molto lungo, in cui si imparano tante cose importanti, ma la più utile dovrebbe essere la capacità di sostenere col proprio voto e con la partecipazione attiva quei movimenti e quelle iniziative che sono state riconosciute come valide lungo gli anni e nei continui dibattiti sulla ricerca dei mezzi coerenti con il fine della pace25.

Tutto ciò può apparire improponibile nella nostra scuola, ma la riflessione di uno dei più grandi conoscitori delle dinamiche sociali può servire da perenne monito: «È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile» (Max Weber, La politica come professione, 1919).

Credere che la pace sia possibile è un atto radicale di fede e di rigore razionale che deve nascere dall’irriducibile principio di fratellanza universale; un dovere morale che ogni docente deve inoculare negli allievi come vaccino al morbo della violenza dei pochi e all’arrendevolezza dei molti sulla quale si sostiene ogni guerra e ogni violenza, specialmente nelle istituzioni.


NOTE

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  1. La Svizzera, da quasi due secoli immune dalle guerre che le hanno infuriato attorno, non è un Paese prediletto da Dio, ma una efficace organizzazione della convivenza civile tra regioni di lingue diverse. Un Paese dove c’è un esercito efficientissimo, dove ogni nuova casa costruita ha il rifugio antiatomico, dove i mercanti di armi e gli speculatori mondiali hanno la loro cassaforte, riesce a evitare i conflitti da due secoli e a porsi come luogo di mediazione. Non sarà virtuoso né pacifista, ma è un esempio incredibile di organizzazione funzionale di convivenza senza guerre.
  2. Quando scoppiò la guerra in Ucraina e l’Italia iniziò ad inviare armi, fu chiesto a 40 giovani che avevano terminato il servizio civile con le lezioni e i lunghi dibattiti sulla nonviolenza, l’obiezione di coscienza, l’educazione alla pace e alla risoluzione pacifica dei conflitti ecc. se fosse giusto risolvere le controversie internazionali sostenendo la guerra: tutti sostennero l’intervento armato. Nel libro Maledetti pacifisti di Nico Piro (People, Busto Arsizio 2022), si definisce chiaramente quello che lui chiama ironicamente il PUB, il Pensiero Unico Bellicista, che domina in ogni comunicazione riferita alle guerre in atto, e dove la verità è la prima vittima.
  3. Il “movimento Nonviolento” ha una bibliografia essenziale per inquadrare questi argomenti, ma è possibile visionare da remoto anche l’enorme archivio che Alberto Labate ha donato alla biblioteca di Firenze. Labate, Lanza del Vasto e Aldo Capitini rappresentano gli autentici eredi di Gandhi in Italia. Pochi giovani in uscita dalla scuola secondaria si sono imbattuti anche solo nei nomi di queste figure-cardine nell’educazione alla pace. Ormai sono molti i siti che riportano bibliografie specifiche e aggiornamenti sugli sviluppi del pensiero pacifista e nonviolento, come Satyagraha, Peacelink, Archivio disarmo, Pax Cristi, Azione nonviolenta, Rivista Anarchica, solo per citarne alcuni. E se la ricerca la fanno le e gli studenti stessi, spesso porta a scoprire delle informazioni che sfuggono anche agli esperti. Quindi non è più necessario dare indicazioni dettagliate, perché basta la bibliografia in fondo a un libro, come ad esempio lo studio recente e approfondito sull’obiezione di coscienza di Marco Labbate Un’altra patria, per entrare in un vasto mondo noto a pochi lettori e supportato dall’archivio del Centro Sereno Regis di Torino. È sufficiente digitare un nome o un titolo, vedere un film “proibito” come Non uccidere di Claude Autant-Lara (1961), per entrare in argomento, o i video provocatori di dibattito di Michael Moore. Per le informazioni di carattere mondiale si può esplorare il sito di War Resisters International (WRI) o dell’IFOR (International Fellowship of Reconciliation) o del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione fondato da M. L. King), Atlante delle guerre, PEACELINK, UNIMONDO ecc.
  4. Massimo Cacciari, Muore il compromesso, trionfa la guerra, Il dottor Stranamore è ancora tra noi, in «La Stampa», 29 luglio 2024.
  5. Si veda https://www.youtube.com/watch?v=pFS6tlxgmGs.
  6. Ibidem.
  7. L’educazione alla pace entro la normativa sull’educazione civica (legge 92 del 2019) dovrebbe prendere lo spunto dal primo dei tre assi portanti: La Costituzione e in particolare l’articolo 11 che negli ultimi anni è stato annullato nei fatti, dapprima nell’accettare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie nel momento in cui si sono sostenute direttamente o indirettamente le varie guerre (Kuwait, Iraq, Cossovo, Ucraina) poi nel sostenere la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli (nel momento in cui Israele o L’Ucraina invadono altri territori con il nostro beneplacito). Gli altri assi portanti (lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza digitale) sono decisamente in subordine rispetto al pericolo di essere coinvolti nei conflitti planetari perché si è abdicato alla neutralità belligerante sancita dall’’articolo 11. Chi sostiene la guerra dovrebbe avere il coraggio di andare a combattere in prima linea e non a sostenere la sua posizione seduto ben comodo nelle retrovie.
  8. Programma nazionale “La pace si fa a scuola”, 4 ottobre – Giornata Nazionale della pace a scuola. Link alla circolare: chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/allegati/all_prot4751.pdf
  9. In Italia edito da Mondadori nella traduzione di S. Stefani, 1992.
  10. Ad esempio vi sono gli istituti che fanno parte della rete nazionale di scuole per la pace. Si veda in questo numero l’articolo di Aluisi Tosolini, Di scuola e di pace, a p. 70.
  11. Già Kant, nell’opuscolo Per una pace perpetua, nel terzo punto dei 6 articoli “preliminari” scrive: «col tempo gli eserciti permanenti devono essere aboliti». Questo concetto viene ripreso identico nella Dichiarazione di diritti della Virginia del 1776, dove si scrisse nell’articolo 13 «Una ben tenuta milizia, composta dal corpo stesso del popolo, abituato alle armi, è la vera, naturale e sicura difesa di uno Stato libero. Gli eserciti permanenti, in tempo di pace, dovrebbero essere soppressi, come pericolosi alla libertà». Non fu scritta da antimilitaristi questa regola, come si vede, e tuttavia fu ben presto eliminata dalla successiva Costituzione del 1787 con l’aggiunta, nello stesso anno, del secondo emendamento «Essendo necessaria, per la sicurezza di uno stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà vietato il diritto del popolo di tenere e portare armi», emendamento fatale per la sicurezza interna, perché oggi in un solo anno negli USA con le armi vengono uccise 30 mila persone. Questa guerra interna, che ogni 2 anni fa più vittime americane che in tutta la guerra del Viet Nam, dimostra che le armi, quando ci sono, si usano, e che lo stesso vale per gli eserciti: se esistono, prima o dopo entreranno in azione. Sembra che l’esempio del Costa Rica, Paese senza esercito, non serva a far comprendere che è possibile investire tutte le risorse nel benessere interno e in forme di difesa non armata.
  12. Il secolo del genocidio di Gellately e Il secolo dei genocidi di Bruneteau sono tra le pubblicazioni più recenti.
  13. La lista di nomi dei costruttori di pace è molto lunga ed ha pagine e vicende straordinarie da riscoprire in ogni anno e – perché no? – in ogni giorno di scuola, come se fosse un nuovo calendario con nuovi “santi”. L’elenco “ufficiale” più noto è quello dei premi Nobel, in qualche caso discutibili, ma per la maggior parte si tratta di figure eccezionali, come Bertha Von Suttner, Betty Williams, Malala… a cui si possono aggiungere personaggi come Simone Weil, Albert Schweitzer, fino ad arrivare ai “nostri” Pietro Pinna, Alberto Trevisan…
  14. Anarchia come organizzazione, di Colin Ward, è un libro giusto per iniziare a conoscere questo segmento semisconosciuto della storia contemporanea, eclissato nei libri di storia ma che ha avuto filosofi, studiosi e rivoluzionari coraggiosi. Un mondo complesso che va dal radicalismo ateo e individualista di Max Stirner (L’unico e la sua proprietà) attraverso il pensiero dei grandi come Bakunin e Kropotkin, gli italiani Malatesta e Kafiero e tanti altri, fino all’estremo opposto del cosiddetto anarchismo cristiano di Lev Tolstoj. Questi scrisse molte pagine sul radicalismo evangelico, e soprattutto un saggio straordinario intitolato Il regno di Dio è in voi, che fu letto dal giovane avvocato Mohandas Gandhi, il quale ne ricavò la dottrina della non resistenza al male chiamandola poi Satyagraha e applicandola alle lotte nonviolente in Sudafrica e in India.
  15. Beniamino Brocca, come sottosegretario alla pubblica istruzione, fu l’innovatore più significativo della scuola italiana dalla primaria alla secondaria: l’unico che coinvolse nell’impresa i migliori scienziati e docenti italiani per stendere dei programmi che ancora oggi rimangono insuperati nel loro valore formativo e come orientamento per le future modifiche che, in realtà sono state compiute “al ribasso”, non tanto rispetto ai contenuti, che erano eccessivi, ma al metodo, magistralmente sintetizzato nelle note metodologiche introduttive. L’educazione alla pace necessita di veder realizzata quella cooperazione tra docenti e discipline che i programmi Brocca auspicavano e sostenevano ipotizzando anche le flessibilità orarie e i tempi di coordinamento tra docenti che, in realtà furono realizzati solo nella scuola elementare (togliendo due ore dal lavoro fronte-classe per darle alle riunioni tra docenti; ore che poi furono rimesse alla docenza dai micidiali tagli successivi). Una scuola che dà preferenza alle azioni di pace dovrebbe protestare in modo civile contro lo spreco delle risorse statali in armamenti inutili e dannosi e chiedere che quelle risorse immense siano invece usate per migliorare la formazione delle nuove generazioni!
  16. Studio compiuto nel “Laboratorio di didattica dell’autonomia dell’allievo con disabilità” presso l’Università di Ca’ Foscari durante i corsi della SSIS del Veneto nel semestre aggiuntivo per la formazione degli insegnanti di sostegno. Esso è consistito nell’aver identificato e descritto le varie autonomie funzionali (autonomia cognitiva, affettivo relazionale, sensoriale, comunicazionale, linguistica, motorio-prassica, neuropsicologica) differenziandole dall’autonomia morale, intesa come la capacità di dare a sé stessi le regole che valgono per tutti.
  17. Giuliano Pontara, uno dei maggiori studiosi internazionali della lotta nonviolenta di Mohandas K. Gandhi, nel saggio introduttivo al volume di scritti gandhiani Teoria e pratica della nonviolenza (1973) riassume così i sei principi di lotta nonviolenta all’interno di un conflitto con avversari violenti: non usare o minacciare violenza nei confronti degli avversari; attenersi in ogni fase del conflitto alla verità; disponibilità ai massimi sacrifici per la realizzazione degli obiettivi che si ritiene essenziali; costante attuazione di un programma costruttivo; disponibilità al compromesso sugli obiettivi non considerati essenziali; astensione dal ricorrere subito alle forme più radicali di lotta (nonviolenta).
  18. Martin Luther King passava tutta la fila di manifestanti per raccogliere i coltelli che portavano con sé, onde evitare risposte aggressive alla polizia; in Francia i ferrovieri avevano organizzato uno sciopero nazionale senza fermare i treni: i passeggeri viaggiavano gratis, il controllore spiegava i motivi dello sciopero e raccoglieva le adesioni dei viaggiatori, nel volantino gli obiettivi erano pochi e chiari e lo sciopero era ad oltranza e a danno economico dell’azienda e non dei dipendenti, tutti uniti nella lotta. In questa prospettiva, gli scioperi di un’ora o di un giorno sono quasi ridicoli se la materia è seria, essi sono funzionali alla debolezza del sindacato e alla diffusa indifferenza dei lavoratori che, invece di andare in piazza, attendono di aggiungere un giorno di “ferie” non retribuite al fine settimana.
  19. L’insegnamento della religione dovrebbe essere l’occasione per ragionare su quello che Jean Marie Muller chiama «Il vangelo delle nonviolenza» in un libro straordinario e dimenticato, al pari di Tu non uccidere di Primo Mazzolari.
  20. Si veda a questo proposito il libro di Giancarlo Livraghi, Il potere della stupidità, Monti & Ambrosini editori, 2008.
  21. In Mein Kampf Hitler scriveva che una menzogna perché sia creduta dal popolo deve essere enorme.
  22. Nel libro I cattolici tedeschi e le guerre di Hitler il sociologo statunitense Gordon Zahn, nel primo dopoguerra, per capire come mai fu possibile la follia di un intero popolo plagiato da un dittatore psicopatico, compie una ricerca sociologica sugli oppositori al regime nazista e scopre che ben 30 mila persone furono identificate come tali e controllate, confinate o eliminate durante quel periodo. Fu lui a scoprire la vicenda di Jägerstätter, che successivamente fu raccolta da Thomas Merton nel libretto Fede e violenza, (1969) un piccolo gioiello ormai introvabile dove l’autore scrive, tra l’altro, «una devota meditazione su Adolf Eichmann» e una pagina straordinaria sui cosiddetti “sani di mente” che preparano i futuri genocidi atomici.
  23. Queste tecniche sono ben descritte nei libri di Capitini (Tecniche dell’azione nonviolenta) o da Gene Sharp nel secondo volume di Politica dell’azione nonviolenta, che ne enumera 197, le quali spaziano dalle semplici lettere di protesta, ai boicottaggi, dal jail-in (che il sottoscritto nel 1979 ha usato con successo assieme ad altri obiettori di coscienza per ottenere la parità di durata e la smilitarizzazione del Servizio Civile) fino ai sabotaggi, e come scrive nella conclusione del libro datato 1973, «È certo che qualsiasi revisione futura dell’elenco […] comporterà un notevole ampliamento». Non so se c’è stato.
  24. Soprattutto delle studenti capaci di andare controcorrente, rispetto alle coetanee che vedono, nella possibilità di diventare soldatesse, una forma di emancipazione e non di omologazione maschilista; studenti consapevoli che la perdita del secolare monopolio maschile della violenza non è un grande progresso verso la pace. Esso dovrebbe consistere nell’eliminazione della violenza e non soltanto del perverso monopolio maschile.
  25. Gandhi afferma che tra i mezzi ed il fine ci deve essere lo stesso identico rapporto che vi è tra il seme e la pianta. Con mezzi violenti non si rende l’uomo nonviolento; con mezzi coercitivi non si rende l’uomo libero; con le minacce non si rende la persona sicura; con le armi non si raccoglie la pace.



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