Riprendere il “pensiero pensante” per una nuova presenza cristiana

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Quali sfide è oggi urgente raccogliere (e possibilmente vincere) per contribuire ad avere ragione della carenza di pensiero che connota il presente dell’Insegnamento sociale della Chiesa? (» Il mondo soffre per mancanza di pensiero», aveva scritto, con straordinaria lungimiranza, Paolo VI nella Populorum progressio del 1967). Mi limito qui a suggerire le tre seguenti. Una prima sfida concerne la presa d’atto della fine del modello di cristianità, quale abbiamo conosciuto durante la lunga stagione della modernità. Sappiamo che la cristianità è l’involucro storico del Cristianesimo. Comprendere allora la differenza tra Cristianesimo e cristianità vuol dire prendere atto del fenomeno della secolarizzazione, la quale non decreta la fine del primo, ma solo della seconda. La storia del Cristianesimo che si riduce a cristianità è la storia del suo tradimento. Il Cristianesimo, infatti, non è un’etica, sia pure avanzata, ma un avvenimento che si concretizza nell’incontro con la persona di Cristo. Ebbene, il dilemma, non certo dei minori, in cui si dibatte oggi la Chiesa sta in ciò: se vuole restare ancorata alla verità profonda del Cristianesimo deve affermare che esso non è un’etica; ma per convincere il mondo della sua rilevanza pratica deve portare il suo messaggio, in qualche modo, sul piano dell’etica. Sciogliere un dilemma del genere è davvero una grande sfida. Il Cristiano, a differenza del cristianista, non ama perché aiuta l’altro e si pone al servizio del povero, ma aiuta e serve perché ama.

La Chiesa di oggi non è più di fronte all’ateismo praticante, come è stato fino a non tanto tempo fa, ma di fronte a una indifferenza radicale. Dio – si afferma – può anche esistere ma è praticamente irrilevante, e dunque se ne può prescindere. Occorre riconoscere “l’astuzia della ragione” dell’ateismo contemporaneo, che è riuscito a eludere la domanda radicale: in che modo la nozione di Dio contiene la possibilità della sua negazione? È l’immanenza mercantile il cuore della cosiddetta seconda secolarizzazione, la cui cifra è l’abbandono della domanda di trascendenza. L’individualizzazione del credere conduce così all’affievolimento del pensiero cristiano come esperienza vivente, mentre resta ovviamente il pensiero cristiano come tradizione. Nel saggio Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna del cardinale Josef de Kesel (Lev, 2023) si legge che il Cristianesimo ha smesso di essere una religione culturale e la cultura (occidentale) ha smesso di essere religiosa. Il senso del sacro persiste, ma entro l’universo delle scelte personali insindacabili. Si tratta di un vero e proprio immiserimento, perché lo spazio pubblico ha bisogno di voci religiose, di profezie coraggiose. Quali saranno il futuro e la forma della Chiesa e della religione in un mondo secolarizzato è la grande domanda che non può essere elusa.

La seconda sfida, cui sopra facevo riferimento, ha a che vedere con l’intrigante questione dell’impegno del Cristiano in politica (categoria questa che non va confusa con la partitica). Distinguendo tra comunità cristiana e comunità civile, il cristiano, in quanto appartenente a entrambe, non può eludere il problema di come armonizzare (si badi: non conciliare!) le due appartenenze, dato che i princìpi fondativi delle due comunità sono diversi e così pure le loro regole di funzionamento. Per il non credente un problema del genere non esiste. Sappiamo bene come sono andate le cose nel corso del tempo: a epoche in cui è stata la comunità cristiana a sottomettere quella civile sono seguite epoche in cui è stato vero il viceversa. E ne conosciamo le conseguenze nefaste. La novità odierna, caratterizzata, come si è detto, dal fenomeno della fine della cristianità ci obbliga ad affrontare la questione della armonizzazione nel convinto rispetto del principio di laicità che, come noto, è dovuto proprio al Cristianesimo, unica religione incarnata, incarnata nella storia. (L’illuminismo ha dato vita, d’altro canto, al principio laicista).

Ebbene, l’ipotesi di ricerca che avanzo è che per svolgere una missione del genere occorre tornare alla Lettera a Diogneto, un testo del II secolo di straordinaria bellezza che affronta di petto la questione dell’impegno politico del cristiano. L’autore, rimasto ignoto, si rivolge a un pagano, Diogneto, per rispondere alla sua insistente domanda sulla fede e sulla singolarità del Dio cristiano. I Cristiani – si legge nei capitoli 5 e 6 – non si distinguono dagli altri perché abitano in città particolari, parlano una lingua particolare, seguono un metodo di vita particolare, ma perché praticano l’universalismo. Sono cittadini del Cielo e proprio per questo non sono indifferenti a ciò che accade nel mondo. In quanto forestieri, i cristiani sono nel mondo come è l’anima nel corpo. Sono nel mondo, ma non sono del mondo, e quindi sono per il mondo. Chiaramente bisogna rimboccarsi le maniche e cercare veramente, a partire dalla considerazione che il Cristianesimo non può considerare la democrazia liberale come un ordine politico definitivo da incoraggiare, perché tale ordine contiene un rifiuto della politica delle virtù. In modo specifico, le strutture della democrazia liberale sono basate sull’idea che le virtù e il dono come gratuità possono essere considerati politicamente e socialmente ridondanti. D’altro canto, avallare un’economia del dono significa affermare l’esigenza che la fraternità sia il test della legittimità politica e la carità il criterio della cittadinanza. È d’interesse far presente che il non credente Jürgen Habermas, nel suo saggio del 2023, ha insistito sul fatto che le democrazie contemporanee hanno eroso il loro fondamento etico, suggerendo come cosa inevitabile il ritorno al pensiero religioso.

Passo, infine, alla terza sfida: come far fronte al fenomeno, ormai di portata epocale, del declino del desiderio, soprattutto – ma non solo – tra le generazioni giovani. Il desiderio è né appagamento né piacere, ma il sentire la mancanza di qualcosa di grande, la domanda di essere, la tensione a un bene totale. Come ha scritto Jacques Maritain, « niente è più umano del fatto che l’uomo desideri naturalmente cose impossibili alla natura». Vasta è ormai la letteratura che ci informa sui modi in cui la civiltà post-industriale è riuscita a barattare l’homo desiderans con l’homo consumans, facendoci credere che si tratterebbe di un progresso. (Si vedano , tra i tanti, i saggi di G. Lipovetsky, 2022); D. Le Breton, 2023; L. Zoja, 2023; B. Chul Han, 2017; M. Recalcati, 2024). Già Renè Girard ( Vedo Satana cadere come la folgore, 2001), introducendo nel dibattito pubblico il concetto di desiderio mimetico – la forza potente che spinge la persona a imitare un modello di comportamento – aveva avvertito che, in assenza di una specifica educazione al desiderio, si sarebbe scivolati nel desiderio rivalitario, cioè nella rivalità mimetica, che è quella forma di competizione degenerata in cui lo scopo dell’azione non è più la meta ma la sconfitta del rivale e la sua distruzione, metafisica o reale. È la rivalità mimetica la fonte principale della violenza tra gli uomini. Se ci si interroga seriamente circa la sua origine nella stagione odierna, non si tarda a scoprire che questa è nella diffusione a macchia d’olio del singolarismo, di questa nuova configurazione antropologica ed etica del sé, che ha preso inizio negli anni ’70 del secolo scorso in California. Secondo il singolarismo, la vita sociale è abitata da singoli piuttosto che da individui.

Quali le differenze tra individualismo e singolarismo? Mentre il primo si basa sulla similitudine tra gli esseri umani, il singolarismo si fonda sulle loro profonde differenze. In altro modo, nell’individualismo le persone differiscono tra loro per i fini, i desideri, le preferenze che coltivano, ma ciò non identifica il loro io, perché la concezione possessiva dell’io deve distinguere l’essere del soggetto da ciò che gli appartiene. (“It is mine, rather than yours; it is mine rather than me”: il self precede i fini). Nel singolarismo, invece, la distinzione tra il self e i suoi attributi è annullata. Io sono il complesso delle mie preferenze, dei miei fini, che mi identificano. Ogni singolo è unico per la sua originalità ed è diverso dagli altri per la sua straordinarietà. Il soggetto unico vuole essere riconosciuto per quello che è e che vuole essere. Rifiuta dunque le categorizzazioni e le classificazioni, perché teme che queste siano un tentativo di omologazione e una minaccia per la diversità, che è il valore supremo per il singolo. Non è difficile cogliere l’insostenibilità di una società singolarista perché questa è sotto i nostri occhi. Mi limito solo a ricordare che è il singolarismo all’origine, per un verso, del mito meritocratico e, per l’altro verso, della crisi della democrazia come governo del popolo, con il popolo, per il popolo. È giunto il tempo di sbugiardare le tante menzogne che circolano, oggi, intorno al desiderio – si pensi solo alla bulimia dei consumi: non possiamo più immaginare una felicità che non dipenda dal consumo, e quindi non possiamo non comprare – menzogne già ridicolizzate da C.S. Lewis quando scrisse: «Siamo come quel signore che pensava di potersi appropriare del tramonto bellissimo, acquistando il campo dal quale lo aveva ammirato estasiato». Non esiste il mercato del desiderio, che perciò non può essere comprato. Non è necessario essere cattivi per fare il male: basta essere acriticamente obbedienti e supinamente manipolabili.

Vado a chiudere. Alla luce di quanto precede si può comprendere quanto indispensabile sia oggi per la Dottrina sociale della Chiesa riprendere la via del pensiero pensante, di un pensiero cioè che non si riduca ad aggiustare le tante crepe delle nostre società a tutti ben note, o a raccomandare che ci si deve accontentare di distribuire “pannicelli caldi” agli outliers. Piuttosto, c’è bisogno di un pensiero che miri a suggerire una via pervia per giungere alla comunanza etica – la koinotes dei greci – nella società attuale del pluralismo. La condizione da soddisfare a tale scopo è che quel pensiero venga proposto non come teoria morale ulteriore rispetto alle tante già disponibili ma come “grammatica comune” a tutte queste, perché fondato su uno specifico principio, quello del prendersi cura del bene umano. Mi piace terminare con un brano del venerabile don Oreste Benzi, di cui ricorre nel 2025 l’anno centenario dalla nascita: « Non c’è missione che porti il cambiamento senza sofferenza, senza croce. Bisogna avere il coraggio di avere ragione, di smettere di piangersi addosso e di chiedere scusa di esistere come cattolici in un mondo in cui l’innumerevole massa viene schiacciata da ideologie pseudo-religiose».

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