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L’obbligo della raccolta porta a porta, introdotto progressivamente in Sardegna negli ultimi anni, nasce dall’esigenza di adeguarsi a normative nazionali ed europee. Le direttive europee, a partire dalla 2008/98/CE, passando per le modifiche del 2018 (Direttive UE 2018/850 e 2018/851), hanno imposto obiettivi stringenti: ridurre drasticamente i rifiuti in discarica e spingere il riciclo. L’Italia ha recepito queste normative con il Decreto Legislativo 3 settembre 2020, n. 116, che ha introdotto la raccolta obbligatoria per i rifiuti organici e tessili.
La Sardegna, con un’efficienza spesso superiore alla media nazionale, ha applicato queste direttive con rigore, ma a quale prezzo?
I costi del porta a porta sono alti, e non parliamo solo di impegno personale. Il sistema richiede più personale, più mezzi, e una frequenza di raccolta maggiore rispetto alla gestione tradizionale. A questo si aggiungono gli investimenti in infrastrutture: mastelli, centri di raccolta, e tecnologie per monitorare e migliorare il processo. Anche i controlli sulle modalità di conferimento – necessari per evitare contaminazioni che renderebbero il materiale non riciclabile – hanno un costo, che spesso si traduce in un aumento della TARI.
Ma il vero paradosso è che, nonostante l’aumento dei costi e degli adempimenti richiesti, non c’è trasparenza. Dove finiscono i fondi della TARI? Qual è la percentuale reale di materiali che, dopo essere stati separati con cura dai cittadini, vengono effettivamente riciclati? E perché, nonostante il virtuosismo, le tariffe non calano, ma anzi aumentano?
Nel frattempo, i numeri raccontano un successo che, in realtà, si regge sulle spalle di chi paga. La provincia di Oristano guida con l’81,5% di raccolta differenziata, seguita dal Sud Sardegna (79,7%) e dalla Città Metropolitana di Cagliari (78,2%). I comuni di Nuoro e Oristano, tra quelli più grandi, superano l’80%, mentre Carloforte, Palau, Gonnostramatza e Villaputzu si distinguono tra i più piccoli, con percentuali vicine o superiori al 90%. Sono dati che raccontano di un’isola in cui il cittadino ha accettato il peso di un sistema, ma senza che questo si traduca in un miglioramento tangibile della qualità della vita o in una riduzione dei costi.
E poi c’è la questione dell’obbligatorietà. La raccolta differenziata non è stata una scelta, ma un’imposizione. I cittadini non hanno chiesto di trasformarsi in operatori ecologici domestici, ma hanno dovuto adeguarsi per evitare sanzioni e contribuire a un sistema che li premia con bollette sempre più alte. Una gestione virtuosa dovrebbe essere anche giusta, trasparente, sostenibile non solo per l’ambiente, ma anche per le persone.
A questo si aggiunge un problema più ampio, tutto italiano: l’evasione della TARI. Una percentuale significativa di cittadini non paga questa tassa, e il costo viene redistribuito su chi invece è in regola, aggravando ulteriormente una situazione già difficile. Non è un segreto che molti comuni sardi, nonostante i risultati positivi, fatichino a coprire i costi del sistema, e questo squilibrio finisce per ricadere sempre sugli stessi contribuenti.
Ma allora, cosa significa essere virtuosi? Perché separare plastica, vetro, carta, umido e secco, se poi i costi lievitano e i vantaggi sembrano sfumare? La Sardegna ha dimostrato di poter essere un modello per l’Italia, ma deve dimostrare di saperlo fare senza trasformare i cittadini in vittime di un sistema opaco e oneroso.
La domanda resta aperta: chi beneficia davvero di questo virtuosismo? I cittadini meritano risposte, non solo percentuali da celebrare. E, soprattutto, meritano tariffe che riflettano il loro impegno, invece di punirlo. Fino a quando questo non accadrà, la raccolta differenziata resterà un obbligo più che un valore, e di obblighi, in Sardegna, ne abbiamo già abbastanza.
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