Cinema, il disastro della copia: perché «Nosferatu» è un film inutile (e forse dannoso)

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Sara D’Ascenzo

Il ritorno del vampiro è un kolossal estetizzante che paradossalmente non sa che cosa sia il fascino: un’unghia di Klaus Kinski faceva molta più paura

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«Nosferatu» di Robert Eggers

Tormentata fin da ragazza, visionaria, cupa. La giovane Ellen Hutter (Lily-Rose Depp, con un’unica espressione, peraltro assente, in tutto il film) è la novella sposa di un impiegato di belle speranze (Nicholas Hoult, in una parte da dimenticare), povero in canna, che accetta di intraprendere un viaggio pericoloso e dai contorni misteriosi pur di guadagnare qualcosa in più e potersi permettere una casa dove far crescere l’amore per la tormentatissima moglie. Ma il viaggio è evidentemente una trappola, Thomas Hutter è il sacrificio umano mandato dal Conte Orlok, Nosferatu (Bill Skarsgård, truccato come se fosse un vecchio con decisi problemi di pelle) per concludere la vendita di un castello in rovina. Il conte vuole solo raggiungere la sua Ellen, che gli appartiene fin da quando gli si concesse da ragazza e ora si strugge per il destino al quale sa di non poter sfuggire: essere nuovamente (e per sempre) sua. In mezzo si affollano diversi personaggi: la coppia di sposi che ospita Ellen nell’attesa vana che Thomas torni, o il professore occultista rinnegato dalla scienza ufficiale (Willem Dafoe), un misto di mitomane e invasato sacerdote che il doppiaggio italiano rende decisamente poco credibile. Pretenziosa copia conforme del «Nosferatu» espressionista del 1922 diretto da Murnau e del meraviglioso film cucito addosso alla paura che sapeva fare Klaus Kinski solo muovendo un’unghia nel «Nosferatu. Il principe della notte» di Werner Herzog (1979), questo nuovo capitolo di una storia senza tempo – l’attrazione per il male, la resistenza del bene – alterna un livido bianco e nero al colore, per puro sfoggio di erudizione, senza che questo ricorso al bianco e nero e a un uso smodato della tecnica del green screen (i protagonisti su sfondi posticci) possano in qualche modo far sobbalzare dalle poltrone deluxe gli spettatori carichi di pop-corn. Non c’è mordente, non c’è paura che tenga: c’è una dimensione splatter che non aggiunge tensione, ma solo qualche fremito di disgusto. A chi parla questo film? Ai ragazzi che non hanno mai visto i vari Dracula che negli anni hanno affollato il cinema? A chi li conosce tutti e proprio per questo non può amare una copia senz’anima dove il cattivo sembra un lupo mannaro? La risposta è probabilmente nell’eterna attrazione per l’horror, non ricambiata da un film ripetitivo e vuoto, buono forse per far uscire di casa gli amanti del genere, non per farli tornare al cinema una seconda volta.
Voto: 5. Mancanza di originalità e attori inadeguati. Una copia sbiadita dei diversi Nosferatu che terrorizzano ancora oggi emergendo lividi da uno schermo che più nero non si può. 

«Maria» di Pablo Larraín

«Maria» riprende gli ultimi anni della Diva Maria Callas, che divenne «La Callas» quando la voce e il personaggio ebbero il sopravvento su Maria. Una prova d’attrice per Angelina Jolie, protagonista assoluta del film in un viaggio musicale puntinato da tutte le arie delle opere liriche più famose e commoventi al mondo. E la vita reale fa da contrappunto alla vita sul palcoscenico (l’unica possibile per La Callas). Quello del regista cileno è un «feuilleton» tradizionale che accompagna lo spettatore nei tormenti della Divina nel suo tentativo di tornare a calcare le scene. I fasti del passato non torneranno e la Diva vive imprigionata nei ricordi di successi passati, nei dischi perfetti, nell’amore della vita con l’armatore Onassis e nella dipendenza da farmaci. La casa parigina diventa quasi una prigione di piccole ritualità e i domestici italiani Ferruccio e Bruna ( i bravi Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher) la proteggono da tutte le cattiverie e dal declino ormai inarrestabile.  Siamo al terzo biopic al femminile per Larraín dopo «Jackie» e «Spencer» e per un attimo due sue opere si incrociano proprio vicino al sigaro di Onassis, quando Maria Callas incrocia Jackie, all’epoca moglie di Kennedy. La stessa Jackie che poi, a bordo del famoso panfilo «Catherine», sfilerà l’amore proprio a Maria, infliggendole forse il colpo mortale. Proprio come all’opera, come nella vita. 
Voto: 6,5. Larraín ricostruisce l’ultima parte della vita della Callas in modo quasi maniacale. E trova una Jolie mai così empatica e viva. Ma la scrittura resta in superficie e non affonda nel dolore che uccide. 




















































«Armand» di Halfdan Ullmann Tøndel

Cos’è accaduto veramente tra Armand, un bimbo di sei anni, e il suo cuginetto, coetaneo, nel bagno della scuola? Un incidente, un comportamento inopportuno? Siamo in una scuola norvegese. L’allarme antincendio è rotto, a rammentarci un senso di pericolo imminente, un’instabilità che i genitori dei due bambini, la bravissima Renate Hansen Reinsveen, mamma tormentata di Armand, e Endre Hellestveit con la moglie Ellen Dorrit Petersen, trascurata e implacabile nell’accusare Armand e, neanche troppo indirettamente, sua madre. Come in molti film visti negli ultimi anni al cinema – da «La sala professori» a «Carnage» fino alle varie versioni del libro «La cena» di Herman Koch – i genitori sembrano incapaci di sostenere il confronto tra loro. Il dialogo è inesistente e ciò che emerge prepotentemente è la mancanza di strumenti nel vivere un ruolo così centrale nella società di oggi. La scuola, quinta eccellente di questa tragedia delle vanità, fa il resto: il preside suda e non prende una decisione, la sua vice sanguina nei momenti meno opportuni, l’insegnante «carismatica» in realtà è debole. Il regista Halfdan Ullmann Tøndel, nipote di Liv Ullmann e dunque calato per discendenza nel tema della deflagrazione della famiglia, esordisce con una sua chiave di lettura, un suo stile, decisamente non convenzionale e sicuramente efficace, come la scena iniziale girata in auto con la soggettiva della madre di Armand che guida ferocemente per arrivare in tempo all’appuntamento a scuola. O come le scene di ballo o sotto la pioggia: risposte mute a un sommovimento degli animi. Un escamotage che porta la storia su un altro terreno, visionario o soprannaturale, che funziona fin tanto che è governata: l’ultima, quella del ballo, sfugge di mano e rischia di essere troppo lunga. Ma l’esperimento è riuscito e il film coinvolge, anche se più nella prima parte che nella seconda.
Voto: 7. Buon esperimento sociale. Qualche taglio avrebbe giovato, ma gli attori sono credibili. E Renate Hansen Reinsveen si conferma un vero talento. 

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