Lamya H., autobiografie di resistenza

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 


Si chiama hijab butch blues l’autobiografia di Lamya H., pubblicata in Italia da Le Plurali (pp. 304, euro 18) nella traduzione di Beatrice Grossi e la cura di Cecilia Dalla Negra e Paola Rivetti. Ed è una bellissima scoperta per chi vuole attraversare la vita dalle mille sfumature di una giovane queer musulmana, dal Medio Oriente agli Stati uniti, dalle prime scoperte della propria sessualità alla paura di darle voce.
È un libro che terremota tante delle convinzioni che nel mondo progressista bianco fanno da puntello a una visione superficiale e monolitica dell’islam, ancora profondamente coloniale.

Il suo libro ci ricorda in quante identità diverse una persona può rappresentarsi e come le comunità di riferimento spesso ne accettino solo alcune e ne rifiutino altre: sì è la stessa persona, ma ci si può sentire esclusi a causa della razza, della religione, del genere. Come è possibile non andare in frantumi?

Anche se fossi in frantumi, questi conterrebbero tutte le mie identità: non so come essere queer senza essere musulmana, senza essere nera, senza essere una persona non binaria. Quando ho iniziato a entrare in quelle identità, ho iniziato a leggere su di esse e a parlare con persone che avevano altre sovrapposizioni, mi sono imbattuta nel lavoro di scrittrici incredibili come Audre Lorde e bell hooks che mi hanno insegnato che le mie identità non possono essere separate l’una dall’altra, che non dovevo scegliere e selezionare, che qualsiasi comunità che mi chiedesse di assorbirne una non era completamente casa mia. L’ho imparato nel modo più duro, a volte alzando la mia voce e sentendomi esclusa, a volte restando in silenzio e poi riflettendo e arrabbiandomi con me stessa per non aver parlato.

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Nella sua storia si intrecciano oppressioni diverse ma interconnesse: migrazione, razzializzazione, islamofobia, patriarcato. Allo stesso tempo, la sua è una lotta multipla che ha come punto di riferimento la fede. L’hijab, qui in Occidente identificato con l’oppressione delle donne, diventa per lei un simbolo di scelta e rivendicazione?

Mi sento fortunata per essere cresciuta in una famiglia in cui indossare l’hijab mi è stato presentato come una scelta personale, non imposta dallo Stato (il che è oltraggioso) o repressa dallo Stato (anch’esso oltraggioso). Ma so che le scelte non avvengono nel vuoto. Per me indossare l’hijab è un’esperienza profondamente spirituale e individuale che mi fa sentire connessa a Dio e alla più ampia comunità musulmana. E finisce qui. Mentre esploro le sfaccettature della mia identità di genere, indosso l’hijab in modi diversi: a volte come un velo, a volte come un berretto o un cappellino da baseball. Indipendentemente dal copricapo che indosso, per me l’hijab è un promemoria: sono responsabile di qualcosa.

Ogni capitolo ha il nome di un profeta, donna e uomo, ed è guidato dall’interpretazione femminista del Corano, sconosciuta in Occidente anche se in Medio Oriente, Africa e Asia molte giuriste e femministe sono impegnate in questo processo da decenni. Quanto conta l’islamofobia e quanto il maschilismo tipico del pensiero e della pratica coloniale?

Penso che ci siano molto razzismo e islamofobia in gioco nel modo in cui si sceglie quali interpretazioni dell’Islam elevare e popolarizzare. Io mi ispiro a tutti gli incredibili movimenti provenienti dal sud del mondo che si occupano di interpretare l’islam e applicarlo oggi: Donna Vita Libertà in Iran, in particolare. C’è una storia così ricca di islam e resistenza e molto di ciò viene appiattito a Occidente.

Le parti del Corano che lei ha scelto di citare mostrano la lotta morale ed etica che impegnano i suoi protagonisti e gli esseri umani in generale: i dubbi davanti a Dio, le scelte dolorose, quelle nascoste. E mostrano una grande apertura all’azione e al pensiero: il Corano non ha una sola direzione, un unico interlocutore.

Una delle più grandi epifanie che ho avuto riguardo il Corano è stata pensarlo come un libro indirizzato a me. Improvvisamente, è passato dall’essere un testo confuso e inaccessibile a uno fluido ed espansivo. Mi ha spinto a pormi delle domande: cosa mi dice questo versetto? Come influenza la mia vita? Quali lezioni posso trarne oggi? Come cambierà la mia lettura domani? Ho scoperto che potevo usare tecniche e competenze che avevo imparato interagendo con altri libri: lettura attenta, messa in discussione della scelta delle parole e ricerca dell’umorismo (a volte Dio è molto divertente!).

Ha sperimentato mondi diversi, ciascuno con la propria ricchezza e le proprie contraddizioni, e ha viaggiato all’interno di realtà collettive dalle quali, a un certo punto del percorso, si è sentita tradita o incompresa: la famiglia, la comunità musulmana, la comunità Lgbtqi+ bianca, l’università. Quanto è complesso, anche per realtà che si considerano progressiste, accettare davvero ciò che si considera «diverso»?

A un certo livello fa parte della natura umana usare cautela verso tutto ciò che è diverso. Ma credo anche fermamente nell’importanza della differenza: ci insegna a mettere sempre in discussione le nostre convinzioni, a prenderci cura le une delle altre, a creare un mondo in cui tutte le persone si sentano a proprio agio e gioiose di vivere. In questi giorni, mi sono commossa per il lavoro che stanno facendo i movimenti per la giustizia delle persone disabili, ricordandoci di dare valore alle differenze e di prenderci cura a vicenda proprio grazie (e non nonostante) le nostre differenze. La risposta ai loro insegnamenti, anche in spazi progressisti, è un promemoria di quanto lavoro dobbiamo fare.

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 

Racconta dei dubbi sul cosiddetto coming out, sul doversi definire. È un atto politico necessario o un’ulteriore violenza?

La prescrizione di fare coming out – come se fosse l’unico modo per vivere una vera, autentica vita queer – è ciò che mi crea dei problemi. Ci sono molti modi diversi di essere queer e alcuni di questi implicano il coming out e altri no. Mi ritrovo affascinata dalle storie di persone queer del passato e del presente che hanno trovato modi creativi per vivere vite piene nei limiti delle loro circostanze. E mi ritrovo a pensare ai tempi in cui dichiararsi ha portato grandi vittorie alle persone queer, specialmente in termini di organizzazione contro l’Aids e di recente contro il vaiolo delle scimmie. Penso che la chiave siano la scelta e il riflettere sul privilegio di chi può dichiararsi e chi no.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link