«Intrappolo gli insetti per salvare i raccolti»

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Le sue ricerche sul mondo degli insetti lo collocano nell’elenco ristretto degli scienziati mondiali più importanti nel settore dell’entomologia. La specie dalla quale è partito è quella dei Ferretti, o “picoi feri” come li chiamano i contadini perché sono lunghi e stretti e sembrano chiodi arrugginiti. Per la scienza sono gli Elateridi e possono distruggere intere coltivazioni.

I suoi studi sono stati i primi in materia. Per fabbricare le trappole ha collaborato con altri scienziati: un ungherese, un russo e un tedesco. Non esistevano le videoconferenze e i quattro si incontravano ogni fine settimana a Budapest, che era semplicemente il punto di ritrovo più comodo.

“L’uomo dei Ferretti” è Lorenzo Furlan, nato a Valdobbiadene (Treviso), 64 anni, entomologo e ricercatore. Un figlio, Paolo, laureato in pianoforte. Dirige Innovazione e Sperimentazione di Veneto Agricoltura; l’ente della Regione che ha sede ad Agripolis, a Legnaro, dove l’università di Padova ha realizzato il campus multidisciplinare per scienze agrarie, forestali e veterinarie.

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Quando è nata questa passione per i “ferretti”?

«Nel 1981 preparando la tesi di laurea in Scienze Agrarie a Padova ho incontrato questi insetti che nessuno sapeva classificare. Erano gli Elateridi, larve del terreno delle quali non si conosceva quasi nulla. Dovevo documentarmi sul rapporto tra zone incolte e il campo del mais, e per farlo ho studiato gli insetti che si muovono nelle colture. Non c’era documentazione, nemmeno nella Biblioteca di Portici, la più fornita d’Italia in materia. Scopro che a Kiev lavora il professore Dolin, un sistematico delle larve, faccio un pacchetto della mia ricerca e nel 1986 spedisco in quella che era ancora l’Unione Sovietica. C’è stata la tragedia nucleare di Chernobyl e da Kiev non è mai arrivata risposta. Ho cercato Dolin per decenni, sino a quando vengo sapere che il grande professore, i cui testi sono fondamentali, è a Vienna per vendere insetti alle mostre entomologiche. Lo raggiungo in aereo, è in compagnia della moglie, non si ricordava, erano passati vent’anni. Era un signore simpatico, con i baffi, reduce da un attacco di cuore; dopo pochi mesi un altro attacco gli è stato fatale».

Giocava a fare l’entomologo anche da bambino?

«No, ma ho sempre avuta la passione per la natura, per i boschi soprattutto. Sono cresciuto a San Donà di Piave, figlio unico, mio padre Aldo era camionista, ha percorso nella sua vita milioni di chilometri, aveva un mezzo proprio, l’ultimo che mi ricordi era un Fiat 619 M rosso. Ha costruito in casa il garage per il suo camion. Era un uomo severo, duro, come tanti usciti dalla seconda guerra mondiale, e questo ha caratterizzato la mia infanzia; ma quello che può farti soffrire da bambino, poi ti offre anche molti stimoli. Mi sono laureato a Padova e ho subito vinto una borsa di studio per l’istituto di Agronomia come ricercatore, proprio a Legnaro, dove lavoro adesso. Ho fatto subito il servizio militare tra Salerno e Pavia di Udine, quando mi sono ripresentato il professore, forse sapendo che non c’erano prospettive come ricercatore, mi suggerisce di fare il concorso per il posto di capoufficio miglioramenti fondiari presso il Consorzio di Bonifica Basso Piave. Supero la selezione e inizio a lavorare, deciso comunque a proseguire le ricerche: così mi costruisco un laboratorio nel garage di casa che mio padre aveva liberato dopo essere andato in pensione. Volevo individuare tutte le informazioni utili per descrivere questa categoria di insetti».

Adesso ne sapete molto di più sugli Elateridi? 

«Ho capito che bisogna classificare larve e adulti, ma per poterlo fare avevo bisogno di un metodo di allevamento che mi è stato insegnato dal maggiore esperto italiano, Giuseppe Platia, di Rimini. Per poterli allevare il problema era mantenere l’umidità costante: all’aria si seccano subito, hanno bisogno di terreno umido. Non potevo permettermi le celle costosissime e ho sviluppato una soluzione economica fatta in casa con le provette per campioni di latte. Mi sono anche presentato all’ingegner Biasio che dirigeva la ricerca della De’ Longhi e gli ho chiesto la collaborazione, insieme siamo arrivati alla soluzione: abbiamo trasformato un forno a microonde modificandolo con resistenza e termostati; e per abbassare le temperature abbiamo usato un frigo da picnic. Avevo fortunatamente un lavoro che mi dava da vivere, la ricerca era il mio secondo lavoro notturno. Grazie anche alla mia mamma Anna Maria che di giorno controllava gli allevamenti, celletta per celletta, e dava da mangiare a centinaia e centinaia di questi insetti. In collegamento con altri studiosi europei, siamo riusciti a pubblicare, primi al mondo, la ricerca su questa specie e altre importanti per la nostra agricoltura. Di certi insetti non si sapeva niente e, quindi, nemmeno come combatterli se non con un grande utilizzo di insetticidi che faceva dell’Italia la più grande consumatrice in Europa. Sono insetti che possono danneggiare le principali colture erbacee, dal mais al girasole, dalla barbabietola alla colza; ma anche quelle orticole dalla lattuga al radicchio, dalla patata al pomodoro».

E a quel punto cosa ha fatto?

«Ho cominciato a pensare a cosa mancava per ridurre l’uso di insetticidi sull’impatto ambientale e sugli operatori: classificazione, biologia, monitoraggio, trappole. Una delle cose con la quale vorrei chiudere la carriera è fare una tabella della suscettibilità delle colture agli elateridi, ponendo come unità di riferimento le soglie di danno individuate per il mais. Adesso il mio metodo è usato in tutto il mondo. Nel 2010 l’incontro fondamentale è stato con i due titolari della Rosa Meccanica di Pordenone specializzata nella produzione di materiale plastico, i signori Sandrin e Redolfi. Occorrevano stampi resistenti per le trappole, a Sandrin piacque subito l’idea, oggi l’azienda vende le trappole in tutto il mondo».

Adesso dirige la ricerca di Veneto Agricoltura: a che punto è l’agricoltura della regione?

«È un’agricoltura specializzata, molto diversificata. Ma la zona costiera veneta, secondo studi recentissimi, è tra le più minacciate d’Europa dal cambiamento climatico. Uno dei temi principali sui quali stiamo lavorando è la “soluzione per l’adattamento”, riguarda tutte le principali colture a cominciare dalla viticoltura che nel Veneto è fonte di un fortissimo reddito. Stiamo sperimentando scenari di agricoltura del futuro che consentano di aumentare la sostanza organica dei terreni, ripristinare una buona biodiversità e ridurre il ricorso ai fitofarmaci. Le colture più a rischio sono i seminativi, mais, soia, frumento. È necessario fare adattamenti per trattenere più acqua buona nei nostri terreni. Quest’anno di acqua ne abbiamo avuto troppa, però nei momenti sbagliati: troppa quando si doveva seminare e raccogliere, poca quando le colture dovevano crescere. Con costi per l’agricoltore, aggravati dai riflessi internazionali legati alla guerra in Ucraina col blocco dell’esportazione e ai prezzi mondiali dei prodotti enormemente aumentati, dai concimi al gasolio».

L’impegno per l’agricoltura sostenibile è valso a Furlan il premio Argav 2024, assegnato dall’associazione dei giornalisti agroalimentari e ambientali del Nordest. E il mondo degli insetti come sta?

«C’è stato un calo della biomassa di insetti, dovuto alla perdita dell’habitat, all’aumento delle aeree edificate e all’uso di fitofarmaci. Abbiamo fatto in modo che ci fosse una drastica riduzione dei fitofarmaci più pericolosi e in certe zone il nostro lavoro ha contribuito a proteggere la biodiversità, come a Vallevecchia. Gli insetti, non stanno bene, nemmeno le specie utili che vorremo proteggere, tra le quali tutti gli impollinatori selvatici e non solo le api».

 





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