A Rosarno 15 anni dopo

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Di quelle giornate è rimasto il fuoco. Bagliori notturni si levano dalla tendopoli. Quindici anni dopo la rivolta dei lavoratori neri a Rosarno, fumo di plastica bruciata invade ancora i campi circostanti le baracche, le «case» di cartone e i container. Non sono più vampate di ribellione: oggi i falò sono accesi per scaldare i corpi piegati dalla fatica nei campi, gli stessi corpi di quel rovente 7 gennaio 2010. Nulla è cambiato sulla pelle dei circa 2mila invisibili ma preziosi braccianti che fluttuano in questa piana come nelle altre aree agricole di Calabria, Lucania, Campania, Sicilia e Puglia. Le associazioni e gli enti attivi nella piana di Gioia Tauro chiedono un incontro con la prefettura di Reggio Calabria più il coinvolgimento dell’Azienda sanitaria provinciale e della regione per trovare una soluzione all’aggravarsi delle condizioni nella tendopoli di San Ferdinando e dintorni. Recentemente un bracciante dell’Ostello Dambe So è stato aggredito, l’ultimo di una serie di episodi simili.

SFRUTTAMENTO DISUMANO, degrado abitativo e totale assenza di servizi provocano doloranti piaghe che quaggiù trovano un minimo di sollievo grazie soltanto al sindacalismo militante e al volontariato cristiano e laico. Per dieci ore al giorno nella raccolta degli agrumi percepiscono una paga da 25 euro. L’80% è senza contratto. Eppure furono i raccoglitori di Rosarno i primi, nel nuovo millennio, a insorgere contro la ‘ndrangheta. Per trovare un precedente simile bisogna tornare agli anni Settanta del secolo scorso, quando l’anarchico Rocco Palamara si ribellò, armi in pugno, alle ‘ndrine di Africo. Sopravvisse, pur subendo l’aggressione giudiziaria. Invece ne uscirono martiri gli altri calabresi che osarono contrastare lo strapotere mafioso.

A ROSARNO quest’anno ricorre un altro anniversario, il 45esimo dalla morte del comunista Peppe Valarioti che in piazza tuonò contro i clan dominanti, ma fu messo a tacere da un proiettile. Peppe sarebbe stato dalla parte dei braccianti neri che trent’anni dopo il suo sacrificio sono usciti dalla baraccopoli per esplodere in guerriglia urbana, senza farsi intimorire dai malavitosi locali, gli stessi che poche ore prima li avevano presi a fucilate, ferendo due di loro al rientro dai campi. Gli attentati e agguati si stanno ripetendo da qualche mese. L’ultimo a ridosso del Natale. Mentre tornava dal lavoro in bici, un’auto si è avvicinata a un migrante. Chi era a bordo ha aperto la portiera colpendolo facendolo cadere. Un film già visto a queste latitudini. «I lavoratori sono nei ghetti o in campi confinanti, subiscono quotidianamente vessazioni» denuncia Ibrahim Diabate, responsabile del progetto Dambe So ed ex bracciante.

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LA SITUAZIONE della piana evidenzia drammaticamente una incapacità delle istituzioni di ragionare sulla messa a sistema di una politica dell’abitare, di chiamare alla responsabilità sociale la filiera agricola della Grande distribuzione organizzata (Gdo) per quanto riguarda le spese di accoglienza. «Noi – prosegue Diabate – sottolineiamo vari elementi: l’inadeguatezza della regione Calabria che ha delegato alla prefettura il ruolo di supplente. Un ruolo che non gli compete, che produce e riproduce logiche emergenziali. Campi che generano ghetti e bruciano enormi quantità di denaro. Il secondo è l’inadeguatezza dei progetti per bandi del governo, inseriti in una dinamica mordi e fuggi che sembra più legata al taglio dei nastri che a politiche di lungo periodo. Senza un ragionamento sugli interventi».

UN MODELLO che, come una tela di Penelope, rende precari gli operatori sociali cancellando ogni volta l’esperienza accumulata e non coinvolge mai i braccianti nella programmazione. Dambe So è un progetto di Mediterranean Hope, Federazione Chiese evangeliche Italia. L’albergo sociale ospita decine di raccoglitori e punta a ribaltare gli approcci basati su emarginazione e assistenzialismo, rendendo i braccianti partecipi nella gestione dei servizi primari. «Il terzo – conclude – è l’assenza di visione delle associazioni di categoria, imprese in particolare, incapaci di produrre un modello di accoglienza dignitoso per i lavoratori». In questo territorio si sono bruciati così tanti milioni che se usati da modelli come quello dell’ostello di Dambe So, o dell’accoglienza diffusa di Drosi, avrebbero potuto ospitare decine di migliaia di lavoratori senza nessun problema.

NE È CONVINTO Francesco Piobbichi, operatore sociale, perugino di nascita e calabrese di adozione, all’interno di Dambe So: «Abbiamo fallito a pensare che l’esperienza di Dambe So avrebbe potuto con il suo esempio riuscire ad aprire un dibattito nelle istituzioni. Si continua a spendere denaro pubblico per campi separati, insostenibili, senza coinvolgere le imprese a pagare le politiche di accoglienza». Nuovi campi con case vuote, come quelle costruite a Rosarno e rimesse a norma in questi mesi dopo essere state vandalizzate.

«SOLDI PUBBLICI gettati così, in un territorio poverissimo, sono una cosa vergognosa. La guerra tra poveri – conclude Piobbichi – esplode anche per queste cose. Ci chiediamo anche dove sia la politica. Se avessimo avuto il finanziamento del campo container di Taurianova recentemente aperto e dove di già non c’è né acqua calda né riscaldamento, che ospita meno persone del previsto (perché è stato sbagliato il progetto dell’impianto elettrico!) avremmo potuto ospitare circa mille lavoratori con il modello Dambe So. Noi, a occhio, spendiamo circa 15/20 volte meno di un progetto come quello e offriamo appartamenti in città invece che container. Offriamo dignità. Riusciamo a ottenere questo risultato grazie alle quote versate dai braccianti, e dalla quota sociale proveniente dalla vendita di arance nei canali della rete di solidarietà sviluppata con arance equosolidali di Sos Rosarno e Mani a Terra. Abbiamo proposto più volte in sede istituzionale di generare una tassa di scopo (un centesimo al chilo) per gli agrumi venduti per generare un fondo comune gestito da un’agenzia per l’abitare per sostenere le spese di accoglienza che dovrebbero essere sostenute dalla Gdo».

SAREBBE IL MODO corretto per uscire dalla logica emergenziale, per iniziare a parlare di prezzo equo, per avere un intervento sostenibile che duri nel tempo. Ma, evidentemente, a tutti va bene che le cose rimangano come sono. E nella pioggia di milioni buttati al macero non poteva mancare il serbatoio del decreto Caivano bis: una parte dei fondi (180 milioni) saranno destinati anche a San Ferdinando e Rosarno. A Rosarno, 15 anni dopo, la vita è sempre la stessa. E i milioni a pioggia non potranno lavare l’onta e le ferite.



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