“Goliardia e sketch surreali. Ecco Come ridevamo”

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L’unica volta in cui a Renzo Arbore, campione di senso dell’umorismo, è passata la voglia di ridere, è stato dopo la stroncatura che Gian Luigi Rondi, decano dei critici cinematografici italiani, fece del suo film comico Il Pap’occhio. «Non credo d’averne mai letto una più distruttiva – ci ride, ripensandoci oggi – Il film, che ironizzava sui luoghi comuni della religiosità, venne addirittura sequestrato per vilipendio alla religione cattolica. Mi consolò il fatto che fu il terzo incasso del 1980, vinse il Biglietto d’Oro, e ottenne il sostegno di autorevoli – e più spiritosi – amici: Monicelli mi telefonò, Fellini mi scrisse una bellissima lettera». Come a dire: le stesse cose che fanno ridere alcuni scandalizzano altri.

Per ripassare dunque i mille, infallibili ma talvolta opposti meccanismi della comicità in tv, Arbore propone da domani giovedì 9, e per venti seconde serate su Raidue, Come ridevamo: «Un’antologia di risate, risatine, sorrisi e ridacchiamenti – spiega lui stesso – che ci hanno fatto, ci fanno, ci faranno ridere».

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E dunque Arbore: rispetto ad oggi «come ridevamo» una volta?

«Con più intelligenza e meno volgarità. Faceva ridere l’allusione, il non detto: si puntava all’accenno impertinente, al malandrino gioco di parole. Poi sono arrivati i cinepanettoni. E la trivialità è dilagata».

Dunque non esistono più i comici di una volta?

«Ahimè, no. Quelli di oggi non sono comici. Tutt’al più umoristi che si esibiscono in stand up. Ma i risultati non sono un granché: si avverte ovunque una generale mancanza di sorrisi. Da quando Fiorello ha chiuso bottega, poi, in Rai la carenza di divertimento è diventata addirittura preoccupante».

Eppure è soprattutto durante i tempi di crisi che aumenta la necessità di ridere e far ridere.

«La necessità sì. Il talento non sempre. Io, Boncompagni e Marenco con Alto gradimento rallegravamo un’Italia che intanto era oppressa dagli Anni di piombo. Senza satira politica o sociale come si fa oggi; con la comicità tout court di personaggi assurdi tipo Scarpantibus. Quella alla Helzapoppin’ (film caposaldo della comicità dell’assurdo, ndr) fatta di molta goliardia e parecchio nonsense. Una volta la goliardia era ritenuta malevola, sboccata. Ma iscritti all’Unione Goliardica Italiana erano studenti universitari che si chiamavano Pannella, Craxi, Scalfari, De Crescenzo. E un genio ancor oggi sottovalutato: Mario Marenco».

In Come ridevamo, condotto insieme a Gegè Telesforo e ideato con Ugo Porcelli, lei ripropone i migliori sketch di decenni di grandi comici, in versione restaurata e integrale. Quali quelli che ammira di più?

«Nell’impossibilità di citarli tutti, direi almeno sei. Totò, idolo assoluto. Verdone il più attore. Benigni il più personale. Villaggio il più rivoluzionario. Troisi il più creativo: inventò una nuova comicità partenopea. E poi un umorista delizioso e colto, raffinatissimo, anche lui ingiustamente dimenticato: Riccardo Pazzaglia».

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E Fiorello? Per molti, più qualificato erede di Renzo Arbore è proprio lui.

«Abbiamo molte cose in comune. Innanzitutto nell’improvvisazione. Anche lui ama i personaggi curiosi, surreali: noi li inventavamo, lui li trova nella realtà. Unica differenza: lui prende spunto anche dalla cronaca, gratificandola di una satira ora benevola, ora urticante. Ripeto: la sua assenza in Rai si sente molto».

Quali sono stati i maestri di Renzo Arbore?

«Io sono un privilegiato. Appartengo alla generazione che ha avuto dei modelli assoluti. Totò, Sordi, Manfredi, Vianello, Tognazzi, Chiari… Noi, da parte nostra, abbiamo metabolizzato tutto travasandolo nel climax della nostra epoca; quello legato alla musica beat e a Bandiera gialla, alla contestazione del ’68».

Nel programma, alle molte scenette, si alternano anche aneddoti e ricordi personali.

«Beh: ricordo quando con Boncompagni ospitammo ad Alto gradimento tre comici sconosciuti. Vedrai assicurava Gianni – questi faranno strada. Si chiamavano il Trio. Oppure quando Bettino Craxi, visto lo sketch con Verdone nei panni di uno dei Mille, mi telefonò per chiedermi la registrazione.

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La metto nella mia collezione di cimeli garibaldini. O quando, prima d’incontrare Aldo Fabrizi, tutti mi dicevano: Quando gli parli alza la voce: il commendatore è sordo. Io lo feci, diligente. E lui: Ahò: ma che te strilli? Mica so’ sordo!».



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