Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha preso sul serio il rapporto The Future of European Competitiveness redatto da Mario Draghi. Ne ha esaminato diagnosi, obiettivo e rimedi, producendo al riguardo un documento critico assai dettagliato. In cui emergono nel Piano Draghi lacune e deficit sulla questione economica, sociale, ambientale e migratoria. In cui la ricerca e lo sviluppo sono appaltate a un’idea mercantile e neoliberale. E in cui l’idea di guerra sovrasta quella della pace. Per questo abbiamo intervistato Elena Granaglia, professoressa ordinaria di Scienza delle finanze al dipartimento di Giurisprudenza di Roma Tre. Granaglia fa parte del coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità e figura tra gli autori del documento di analisi sul Piano Draghi.
Cominciamo da uno sguardo generale. Come avete scritto nel documento “Piano Draghi, Non ci siamo. Diagnosi, obiettivo e rimedi a raggi X”, «pesa, infine, una visione ancillare della dimensione sociale. Nei fatti, si accentua la frattura fra economia e società come se questi anni nulla avessero insegnato». Il Piano Draghi è arido infatti. Sembra ancora essere figlio della stagione dei tecnici, o tecnocrati. Nel testo ci sono i numeri ma mancano le persone, ci sono i capitali ma manca la vita. Sono davvero questi gli unici presenti e futuri immaginabili per l’Europa?
I numeri sono certamente importanti e anche le risorse. Ma sono strumenti che hanno poco significato in assenza di un collegamento con il miglioramento delle condizioni di vita, l’espansione delle opportunità e la promozione della qualità sociale dell’ambiente di vita e del tessuto delle relazioni fra le persone. Questi effetti non sono una conseguenza automatica di un aumento del prodotto interno lordo (Pil). Anzi, abbiamo molti esempi in questi ultimi decenni di come la crescita abbia acuito le disuguaglianze fra persone e fra luoghi, abbia danneggiato l’ambiente, abbia rotto legami sociali. Dunque, il puro numero della crescita, senza attenzione agli effetti sulle persone, ci dice ben poco.
L’economista Mario Pianta intervistato da Valori.it punta il dito sulle politiche monetarie messe in atto dallo stesso Draghi alla Bce. Se è vero che a un certo punto con la pandemia ha inaugurato una fase espansiva, è però rimasto ancorato a un «modello di sviluppo guidato dall’idea che lasciar liberi i mercati consente alle imprese di prendere le decisioni “giuste”. […] Ma in questi vent’anni gli investimenti delle imprese sono stati totalmente inadeguati. Non è stata ricostruita la capacità produttiva colpita dalle crisi, non sono state avviate le trasformazioni digitali ed ecologiche».
Condivido la posizione di Pianta. Due sono le ragioni principali. Da un lato, i mercati oggi sono dominati da grandi imprese dove è, a sua volta, dominante la ricerca della massimizzazione del valore per gli azionisti. Questo ha favorito e favorisce la distribuzione dei dividendi e la ricerca di incrementi di valore patrimoniale grazie a pratiche di riacquisto delle azioni che, vorrei aggiungere, sono una distorsione del mercato azionario: le imprese anziché ricorrere al mercato per finanziarsi ne sono finanziatrici. I profitti, in altri termini, si riversano in questi canali piuttosto che sull’utilizzo interno sotto forma di investimenti.
Certo, remunerare gli azionisti è condizione essenziale alla vita dell’impresa. Dirimenti sono, tuttavia, le regole. Un conto è un contesto dove il potere degli azionisti è bilanciato da quello dei lavoratori. Un altro è quello che è andato delineandosi negli ultimi decenni, di forte indebolimento del lavoro. Non dimentichiamo, peraltro, che il riacquisto di azioni è stato vietato negli Stati Uniti, fino all’inizio degli anni 80, esattamente in quanto ritenuto fonte di manipolazione dei mercati.
Dall’altro lato, la doppia transizione investe scelte che vanno ben oltre la decisione di produrre un bene piuttosto che un altro. Le tecnologie digitali, ad esempio, possono essere dirette verso la promozione dell’automazione oppure in quella della ricerca di nuove complementarità con il lavoro o, ancor più precisamente, con la qualità del lavoro. Possono essere sviluppate al fine di favorire il controllo individuale sui dati oppure il controllo collettivo e, con esso, una maggiore democrazia. Non possiamo lasciare ai mercati queste scelte.
La prima cosa che voglio chiedere non è quello che c’è nel Piano Draghi, ma quello che manca. Anche alla luce di quanto successo nelle scorse settimane in Emilia e nella Comunità Valenciana, fa ancora più impressione la mancanza di un’analisi di come le trasformazioni e gli investimenti proposti possano impattare o meno sulla crisi climatica da cui siamo investiti. Invece di essere una bussola che orienti l’intero discorso, il clima è relegato a fastidioso rumore di fondo.
Mancano diverse cose, come diciamo nel documento Forum Disuguaglianze e Diversità. Qui mi limito a sottolineare una mancanza generale: ossia, il concepire l’economia e la giustizia sociale come due ambiti separati, l’economia si occupa di crescere e lo Stato sociale di attenuare le disuguaglianze. E, invece, la giustizia sociale riguarda anche l’economia, come produciamo e come ripartiamo il sovrappiù che insieme produciamo. Detto in altri termini, dobbiamo occuparci di democrazia economica. Peraltro, se non ce ne occupiamo rendiamo anche più difficile i compiti dello Stato sociale. I divari da colmare aumentano e al contempo disuguaglianze economiche elevate potrebbero indebolire il sostegno alla redistribuzione. Esemplificativa è la copertina di un rapporto dell’Ocse di alcuni anni fa, che riporta la mongolfiera dell’1% che si allontana dalla Terra, un luogo cui non sente più di appartenere.
Passando alla questione più specifica, ossia la crisi climatica, il Piano Draghi, in realtà, delinea una prospettiva di decarbonizzazione, offrendo diverse indicazioni interessanti, ad esempio, in materia di definizione dei prezzi dell’energia. Il limite è la sottovalutazione della dimensione sociale delle misure di adattamento e di mitigazione. Restano trascurati ambiti d’azione importanti quali la mobilità collettiva; gli investimenti in progetti collettivi di prevenzione dei disastri ambientali; la produzione comunitaria decentrata di energia; il complessivo contesto urbano (non solo le abitazioni) e il rafforzamento delle reti sociali, solo per fare alcuni esempi.
Altra mancanza grave è la ricerca. O meglio, come scrivete: «Sulla questione centrale di come accelerare i processi di ricerca e innovazione, la proposta primaria del piano è di creare, sul modello statunitense, grandi “campioni europei” principalmente attraverso meno antitrust, meno regolamentazione e più sussidi». Quindi la ricerca c’è, ma non è intesa come condivisione di esperienze e di saperi, ma come un terreno di contesa dove primeggiare.
Esattamente. È infatti vero quanto scrive il Piano Draghi che la spesa in ricerca e sviluppo da parte delle imprese è, nell’Unione europea, decisamente più bassa che negli Stati Uniti: l’1,2% del prodotto interno lordo contro il 2,3%. Ed è particolarmente debole nel campo dello sviluppo dei software. Al contempo, l’ammontare di spesa pubblica è lo stesso: 0,7% del Pil in entrambi, Unione europea e Stati Uniti. Il problema, secondo noi, è nella via privilegiata dal Piano: puntare sulla formazione di “campioni europei” di grande scala attraverso ampi sussidi e un deciso intervento di riduzione della tutela della concorrenza e promuovere la propensione e la capacità di università e centri di ricerca pubblici rispetto alla commercializzazione dei risultati. Ossia, privatizzare la conoscenza.
Ora, l’acquisizione di un forte potere di mercato potrebbe avere effetti positivi solo nel breve, limitando nel tempo la diffusione delle innovazioni. Da un lato, infatti, la mobilità dei capitali non ci assicura in alcun modo circa la permanenza in Europa dei “campioni europei”. Dall’altro lato, la privatizzazione della conoscenza implica restrizioni all’accesso, a danno delle tante medie imprese, attori centrali dell’economia europea. E, comunque, resta aperta la questione della direzione della ricerca.
La strada che il Forum Disuguaglianze e Diversità indica è quella di potenziare la ricerca pubblica comune europea, mentre oggi il 90% della spesa per tale ricerca è frammentata in modo inefficiente tra i diversi Paesi, e di farlo valorizzando la grande eredità europea di un sistema universitario e di ricerca europeo, che lo porta a lavorare per la scienza aperta.
Quello che invece nel Piano Draghi non manca, anzi c’è in abbondanza, è la spesa militare. Sarà anche il periodo storico, ma sembra che l’impostazione stessa del documento, il suo cuore pulsante sia, come scrivete, «fare della difesa un volano dello sviluppo, senza attenzione ai gravi effetti di tale scelta». Come è possibile che l’Europa, nata come idea di pace dalle macerie dei più sanguinosi conflitti nel suo futuro, possa immaginare solo la guerra?
Sicuramente, i moniti della storia troppo spesso si indeboliscono nel tempo e l’impegno nei confronti della promozione di una cultura e di una governance della pace è stato insufficiente. Nel nostro documento non entriamo, tuttavia, nelle cause di questa evoluzione. Sottolineiamo i costi, profondi, di un keynesianesimo militare, riportando all’attenzione il famoso discorso di fine mandato presidenziale del generale Dwight Eisenhower, il 17 gennaio 1961, sui rischi immani di «un potere fuori posto» del «complesso militare-industriale». Il che non significa trascurare la necessità di una difesa comune europea, che pure era parte dell’idea originaria di Europa. Proprio una difesa comune dovrebbe, però, comportare anche economie di scala. E, comunque, l’attenzione alla difesa non può sostituire l’impegno già ricordato per la pace.
Altra cosa che mi fa pensare che Mario Draghi abbia un’idea di Europa incapace di cogliere le contraddizioni e le potenzialità del presente è il suo appiattimento sulla presunta egemonia americana. Voi scrivete di «scelta degli Stati Uniti come standard ricorrente di riferimento, senza coglierne debolezze, instabilità economica e recenti evoluzioni». In un mondo globale e multipolare, dove nuovi Paesi e nuove economie non sono più emergenti ma già emersi, per non dire dominanti, il Piano Draghi ragiona ancora con canoni miopi e vetusti.
Rispetto agli Stati Uniti la nostra posizione, da un lato, è che occorra guardare non solo al Pil pro capite (in modo da neutralizzare la dinamica della popolazione assai diversa nell’Unione), ma anche al Pil pro capite a parità di potere d’acquisto (in modo da neutralizzare il peso dell’apprezzamento del dollaro). Così facendo, il divario fra Usa e Unione europea si attenua fortemente. E, comunque, il Rapporto stesso cita fra 2002 e 2023 un aumento piuttosto modesto del divario «dal 31 al 34%». Dall’altro lato, non possiamo trascurare le profonde disuguaglianze, personali e territoriali; la precarietà e la fragilità democratica che hanno caratterizzato la crescita degli Stati Uniti. Le recenti elezioni americane ne sono testimonianza.
Rispetto al più complessivo contesto internazionale, il Piano Draghi congela le relazioni internazionali in “allineati” e “non-allineati”. Ciò significa ignorare non solo le difficoltà della relazione euro-atlantica, ma le tante opportunità per l’Unione derivanti da una relazione strategica di pace e cooperazione con la Cina o da nuove relazioni con l’Africa (citata due sole volte nell’intero rapporto) e con il Sud del mondo.
Voi scrivete della totale disattenzione del Piano Draghi per «la dinamica demografica e la connessa sfida/opportunità delle migrazioni». Manca completamente la presa di coscienza dell’esistenza di un mondo enorme e soprattutto giovane là fuori. Un mondo brulicante di nuovi desideri e nuovi bisogni. Più che un documento programmatico che guarda al futuro, il Piano Draghi risulta così essere uno sguardo compilativo, vecchio e stanco, sul passato. Su quello che è stato e non su quello che potrà essere.
Ottima domanda finale. I giovani hanno un ruolo marginale. Non ci sono i tanti giovani provenienti dai Paesi extra-europei che guardano all’Unione e che potrebbero aiutare una Unione sulla via dell’invecchiamento. Il tema delle migrazioni è sostanzialmente assente, quando le migrazioni sono questione dirimente anche per la competitività dell’Unione. Ai giovani provenienti da famiglie svantaggiate si prospetta un aiuto nell’istruzione dei più abili, come se le abilità fossero un dato puramente naturale e individuabile in un ben preciso momento temporale. Dei servizi e delle più complessive politiche contro gli stereotipi di genere e le discriminazioni che possono aiutare le giovani donne ad accedere alla pari nel mercato del lavoro non si parla.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link