Tra geopolitica e chimica: c’è anche il Captagon, una combinazione di anfetamina e teofillina, dietro le tante trasformazioni sociali e politiche in atto nei Paesi del Golfo e nel Medio Oriente. Questo farmaco, originariamente sviluppato come trattamento medico negli anni ’60 e successivamente bandito per i suoi effetti nocivi, era diventato uno strumento strategico nelle mani del regime siriano guidato da Bashar al-Assad. Largamente consumato nei paesi del Golfo, in particolare in Arabia Saudita, dove è avvenuto il 67% delle confische globali tra il 2012 e il 2021, questo potente narcotico viene utilizzato per migliorare la concentrazione, ridurre la fame e aumentare la resistenza ma i suoi effetti collaterali, che includono confusione e allucinazioni, lo rendono altamente pericoloso. Secondo i servizi segreti israeliani, anche i guerriglieri di Hamas ne farebbero uso.
Per la Siria di Assad, la produzione di Captagon a partire dall’inizio della guerra civile nel 2011 era diventata uno dei pilastri dell’economia nazionale. Con l’economia in rovina e sotto il peso delle sanzioni occidentali, il regime aveva trasformato il narcotico in una fonte primaria di reddito. Nel 2021, i guadagni stimati dal commercio di Captagon variavano tra i 5,7 e i 30 miliardi di dollari, cifra che supera di gran lunga il prodotto nazionale lordo della Siria nello stesso anno.
Secondo indagini internazionali, il traffico di Captagon è stato gestito da una rete sofisticata che include membri dell’élite siriana appena deposta, come Maher al-Assad, fratello del presidente e comandante della Quarta Divisione Corazzata, insieme a milizie locali e gruppi stranieri come Hezbollah. Questi attori non solo producevano e distribuivano il farmaco, ma lo utilizzavano anche come strumento per ottenere vantaggi geopolitici, in particolare con i paesi del Golfo.
La strategia del regime che ha retto la Siria fino a pochi giorni fa appare chiara: sfruttare il controllo sul traffico di Captagon per negoziare la fine dell’isolamento politico ed economico imposto dalla comunità internazionale. Nel 2023, la Siria è stata riammessa nella Lega Araba, un segnale di riavvicinamento con gli Stati del Golfo, probabilmente influenzato dalla necessità di affrontare insieme il problema del narcotraffico.
Nonostante gli sforzi di cooperazione tra paesi come Arabia Saudita, Giordania e Iraq per identificare e fermare i flussi di Captagon, diverse criticità hanno reso finora difficile una risoluzione del problema. Innanzitutto, il regime di Assad ha tratto enormi benefici finanziari dal traffico di droga, rendendo improbabile che rinunci volontariamente a questa fonte di reddito. Inoltre, il sistema frammentato di milizie e reti criminali coinvolte nel traffico ha agito in modo decentralizzato, spesso al di fuori del controllo diretto di Damasco.
Un altro ostacolo è stata la mancanza di consenso tra i principali attori internazionali sul futuro della Siria. Mentre i paesi del Golfo sono sembrati disposti a fornire supporto economico in cambio di una riduzione del traffico di Captagon, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Europa hanno limitato le loro opzioni. Washington, in particolare, si è opposta a un completo riavvicinamento tra gli stati arabi e il regime di Assad senza progressi significativi sul fronte dei diritti umani e delle riforme politiche.
Il problema del Captagon non può essere risolto senza affrontare le radici della crisi siriana. Fonti di intelligence nella regione affermano che la droga viene ancora prodotta in piccoli laboratori lungo il confine siriano-libanese, così come in stabilimenti più grandi vicino al confine tra Siria e Giordania. Una parte della produzione avverrebbe anche in Libano, sempre secondo fonti di sicurezza.
Una soluzione duratura richiede un approccio integrato che combini la lotta al narcotraffico con iniziative di ricostruzione economica e di stabilizzazione politica. Tuttavia, con le tensioni geopolitiche ancora elevate e la mancanza di una strategia regionale coordinata, una risoluzione sembra lontana.
Nel frattempo, l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo continuano a fronteggiare le conseguenze di un problema che minaccia non solo la loro sicurezza interna, ma anche la stabilità dell’intera regione.
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